lunedì 18 febbraio 2013

Un giorno questo dolore...

Mentre febbraio mi scivola via dalle mani senza che me ne accorga, mentre rincorro le ultime frittelle ripiene di crema, acciuffandole prima che inizi la Quaresima, mentre... eccetera eccetera... succede che per circostanze particolari e fortuite mi ritrovo ad assitere ad alcune lezioni tenute da medici specialisti all'Università Cattolica. Sono in gran parte professionisti che operano in situazioni estreme: c'è l'oncologo che cura i bambini malati di leucemia, il medico legale che presta assitenza in un centro di aiuto per vittime di violenza, medici specializzati nella cura del malato di HIV... Non insegnano qualcosa di specifico in queste lezioni, portano più che altro la loro esperienza: forte, a tratti indigesta, ma ricca, ricchissima.

Che ci azzeccano Paul e Linda McCartney?
Per dire che finchè c'è amore c'è speranza
(tanto per cambiare)


Messi a confronto con la mia routine (quella di chiunque, credo), sembrano eroi, anzi Supereroi, ma in carne e ossa. Probabilmente non dico nulla di nuovo, e lo sapete. Sono grata di averli incontrati, perché sono diventati un punto di riferimento concreto delle mie di esperienze. Mi ricordano di non lamentrami troppo, di alzare lo sguardo oltre le contingenze. Ascoltare il dottor Jankovic del San Gerardo di Monza è una grande fortuna. Ha a che fare ogni giorno con famiglie che affrontano la dannazione di vedere i propri figli ammalarsi di leucemia. Lui stesso ha vissuto la malattia ed è una persona semplicemente splendida, grazie - anche - alle sfide con cui si misura ogni giorno. Ha fatto del dialogo (comunicazione della diagnosi compresa) con i suoi piccoli pazienti uno dei principi del suo mestiere, anche se dice che amici dei pazienti e delle loro famiglie lo si deve diventare solo dopo. Dopo cosa? La guarigione, quando va bene, la morte quando no. Legge le lettere di infermieri, bambini, genitori che ha conosciuto negli anni, quella di una ragazzina di 12 anni che scrive: "il valore di una vita si riconosce da come si vive la propria morte". Poi tocca a quella di una diciottenne. Una lettera che sarebbe da pubblicare integralmente perché è impossibile riprodurre il senso di maturità con cui racconta la sua via crucis (sociale, oltre che fisica) verso la salvezza, E poi ci legge la poesia che un suo paziente gli regalò. Jankovic dice che gli è stata donata dall'unico ragazzo che, guardandolo dritto in faccia, gli ha chiesto: "Dottore, sto morendo?". Lui racconta di aver dissimulato, di averlo tirato su. Poche ore dopo è spirato, così ci racconta il dottore, e tradisce un po' di commozione. La poesia è Ode alla vita di Martha Medeiros, fa così:

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
 
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.
 
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.
 
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
 
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.
 
Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
 
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
 
Soltanto l'ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.
 
Un dolore come quello delle famiglie "pazienti" del dottor Jankovic io non l'ho mai vissuto, non l'ho mai conosciuto. Posso solo rispettarlo. E posso sperare di saper affrontare i miei dolori - i presenti, i futuri - senza dimenticare in un angolo la speranza. "E' dura parlare di speranza a un malato terminale", dice il dottore, "Eppure è possibile, è qualcosa che ha a che fare con la qualità della vita, anche a pochi passi dalla morte". Un altro dei suoi ragazzi, gli ha scritto proprio questo, prima di andar via: "Grazie per avermi dato la speranza". Lo scorso anno, proprio il 18 febbraio, andai a scegliere il mio abito da sposa con una mia amica, un'amica di quelle che vedi di rado ma che ti riempiono, un'amica super insomma. Lo trovai, fu grande gioia, gioiva anche lei, rideva con gli occhi. Oggi, le cose sono un po' diverse, la mia amica non ha più il suo adorato papà. E' un dolore che non conosco, vorrei che neanche lei lo conoscesse. Vorrei che nessuna ombra sia nel suo sguardo o sul suo cuore. Però le auguro che un giorno tutto questo le porti altro, forse una piccola ricchezza, come quella che il dottor Jankovic si porta nel taschino tutti i giorni.

1 commento:

  1. La frase della ragazzina mi ha fatto venire la pelle d'oca.
    Ci vuole un gran coraggio per fare un lavoro come questo. Per fortuna qualcuno questo coraggio lo ha.

    RispondiElimina