martedì 27 marzo 2012

Il romanzo di una strage e la mappa di una città

Sono stata a vedere Romanzo di una strage, un film della cui esistenza sono grata. Francamente non è un capolavoro: lo trovo documentaristico – non che sia un male- e un po' didascalico, però è un film di cui si sentiva la mancanza. Un regista non può e non deve sostituirsi allo storico (a dispetto dell'opinione di molti giornalisti), ma il cinema e le arti tutte possono sfondare delle porte chiuse e invitare al confronto scongiurando la paura, abbattendo timori reverenziali o cautele meschine. Guardando Romanzo di una strage mi è venuta voglia di leggere interviste e romanzi inchiesta sull'argomento, di documentarmi di più: in tal senso mi viene incontro la newsletter di Fnac che strilla Speciale Italia criminale, dalla Strage di Piazza Fontana a Felice Maniero!. Ora: c’era proprio bisogno di quel punto esclamativo, per la miseria?! Un caso di marketing che si mangia la dignità delle vittime, proprio al contrario di quello che succede con il film di Marco Tullio Giordana. Qualcosa vorrà dire se Riccardo Tozzi, produttore con la sua Cattleya di Romanzo di una strage, dice che "stavolta non c'è l’attesa spasmodica dell'incasso, l'esigenza è piuttosto quella di creare un'apertura umana e storica per capire gli eventi e i personaggi che ne sono stati protagonisti. Si tratta di regolare un conto con se stessi, con la propria generazione, per lasciare qualcosa alle nuove".

Il buco nella Banca Nazionale dell'Agricoltura
nel film "Romanzo di una strage"
Piazza Fontana per me è innanzitutto il ricordo delle scuole superiori. Io sono del 1980: ogni anno all'Istituto Magistrale di Rho il 12 dicembre era giornata "sacra". Compiti in classe, interrogazioni, gite? Ennò, il 12 c'è la manifestazione di Piazza Fontana. Che poi, a onor del vero, mica tutti gli anni ci andavamo davvero, io e i miei compagni: ne approfittavamo per fare altro e godere di un giorno di libertà. Strana concezione di libertà: oggi mi vergogno un po’ di quelle bigiate travestite da impegno politico. Doppiamente, triplamente mi vergogno. Perché oggi, proprio oggi, alla conferenza stampa di Romanzo di una strage c'era il figlio di una delle vittime di Piazza Fontana e prima delle bagarre politiche, prima delle esigenze di Verità, prima di tutto ci sono loro: le vittime. Mi sembra di averne tradito il ricordo e per pigrizia e per ignoranza. Perché che ne sapevo io, quindicenne, sedicenne, di cosa voleva dire "Piazza Fontana"? Quanto ho cercato di capire allora, quando si andava in manifestazione?

La targa con i nomi delle vittime del 12 dicembre 1969

Oggi, proprio oggi, cerco un po’ di recuperare e dopo la conferenza stampa in Terrazza Martini decido, pur di fretta come sono sempre, di passare da lì, di fermarmi davanti all'ingresso della Banca Nazionale dell'Agricoltura, di leggere i nomi incisi sulla lapide in memoria delle 17 vittime. Al di là del piazzale ci sono altre due targhe, dedicate alla 18ma vittima: Giuseppe Pinelli. Una targa lo ricorda come "ferroviere anarchico ucciso innocente nei locali della Questura di Milano il 16.12.69" ed è stata voluta da "Studenti e Democratici di Milano"; l'altra, affissa dal Comune, lo commemora come "innocente morto tragicamente nei locali della Questura di Milano il 16.12.69". Una differenza che dichiara quanta strada ci sia ancora da fare per raggiungere la Verità.

In memoria di Giuseppe Pinelli/1

Quante volte sarò passata da Piazza Fontana per andare in università? Quante volte avrò attraversato via Larga, senza onorare la memoria di Antonio Annarumma? Oggi penso alle parole del mio professore di filosofia: "Le Brigate Rosse poi tanto rosse non erano", penso alla mia professoressa di italiano che raccontava del suo fidanzato ferito da un colpo di pistola in una manifestazione. Gli anni Settanta, la strage del 12 dicembre, Pinelli, Calabresi, Aldo Moro, quella foto del ragazzo che impugna una pistola in via De Amicis (quante volte sarò passata da via De Amicis?) si succedono nella mia testa e come faccio a non pensare a via Cherubini, le volte che ci sono stata, là dove hanno sparato al Commissario Luigi Calabresi? Quante volte l’avrò percorsa senza sapere?

In memoria di Giuseppe Pinelli/2
Oggi Milano mi sembra un’enorme mappa di eventi non solo tragici, ma odiosi perché senza traccia di Verità. Una rete di vie che pullula di frenesia, senza elementi che inducano a credere che quel passato sia stato metabolizzato, sviscerato, digerito. La vita va avanti ed è sacrosanto, ma possibile che debba andare avanti come un caterpillar? Mentre Milano si fa alveare per ospitare i traffici illeciti della malavita, mentre si scavano cantieri e si inaugurano palazzi che restano vuoti, mentre si specula, mentre si affaccia l'Expo, mentre Milano è la Milano del presente e ognuno corre incontro al suo destino, io, Signori, vorrei la Verità, vorrei una versione chiara da far stampare sui libri di storia. Che se non deve esserci un giustizia giusta, che ci sia almeno quella auspicata da Licia Pinelli: "Non parlo della giustizia dei tribunali, ormai. Per me, giustizia è la consapevolezza degli uomini di che cosa è accaduto. Che si sappia chi ha ucciso Pino. Chi ha ucciso Pino ne sia riconosciuto responsabile. Chi sa, trovi il coraggio di dire la verità: è la sola strada verso una pacificazione che sappia liberarci del passato".

domenica 4 marzo 2012

Ti voglio bene, Diane. Oggi come allora

Diane Keaton è la responsabile di un grosso fraintendimento che ha condizionato la mia vita: considerare l’aggettivo "nevrotico" un complimento. Dal piccolo schermo da cui ho guardato i suoi film, prima che iniziasse la mia carriera di spettatrice cinematografica, i suoi personaggi sopra le righe  mi hanno convinta che nevrotico è bello. In Misterioso omicidio a Manhattan prima e poi, andando a ritroso, Manhattan o Io e Annie , Diane Keaton mi ha accompagnato per mano – con Woody Allen, chiaro – per le vie di New York, alimentando l'idea che la Grande Mela fosse magnifica e che… nevrotico è bello. A NY ci sono stata, infine, e nevrotica credo di esserlo diventata (un pochino, via, non esageriamo): la città che non dorme mai non ha deluso le aspettative, la nevrosi si è rivelata invece meno glamour di quanto credessi.

La biografia di Diane Keaton. 19 Euro ben spesi.

Oggi, Diane mi regala un altro momento prezioso: la lettura della sua biografia Oggi come allora. In effetti non è una biografia tout court perché intreccia le vicende dell'attrice con quelle della madre Dorothy. Le pagine svelano i momenti critici del percorso di ciascuna, così come i loro momenti migliori. È stata una lettura struggente, lunga 254 pagine. Struggente per la grande, sana indulgenza che Diane finalmente si concede: nei confronti di se stessa prima di tutto. Nei capitoli del libro emerge la donna fragile, troppo esigente nei suoi confronti: Diane si sente sempre meno di ciò che è davvero,  mai all'altezza delle situazioni, degli amori, del successo. Esiste forse una donna che non la capisca? In poche parole, Diane è umana, mette a nudo con tenera sincerità tutte le contraddizioni con cui ha vissuto l'adolescenza, la giovinezza, l'età adulta. Alla prova con la malattia e la morte del padre e poi della madre, Diane cresce e si fa più saggia, o così capisce il lettore, perché ovviamente lei non lo ammetterebbe mai: perdona i suoi errori o chiede scusa per quelli commessi che hanno fatto male ad altri. Diane riesce forse a comprendersi, chiudendo in qualche modo il cerchio della sua vita. Eppure, le pagine di Oggi come allora non segnano una fine alla sua evoluzione: non possono e non devono.

"Io e Annie", 94 minuti ben vissuti

Ho inteso il libro come un modo per mettere nero su bianco i pensieri di una vita, un promemoria autentico e sentito per gli anni futuri, valido per l'autrice e anche per i suoi lettori. Insomma, ancora una volta Diane Keaton mi ha fatto venir voglia di essere in futuro ciò che lei è ora: una signora un tempo schizzata e inquieta che ha finalmente trovato un po' di quiete e saggezza.

venerdì 2 marzo 2012

Milano scopre Ai Weiwei

Gli artisti contemporanei suscitano sempre diffidenza. Ci chiediamo se siano geni o furbacchioni: sarà capitata la stessa cosa a Leonardo Da Vinci o a Caravaggio, nel '400 e nel '600? Capita oggi con Maurizio Cattelan, capita anche con l'artista che attualmente risulta avere più valore sul mercato: Ai Weiwei, cinese di Beijing, classe 1957 e, dal prossimo 12 aprile, ospite alla Lisson Gallery di Milano con una personale realizzata con opere in ceramica e in marmo.

Ai Weiwei fiero della sua mostra Sunflower Seeds
alla Tate Modern di Londra (2010)

Sono curiosa di vedere gli spazi della galleria assediati dai lavori dell'artista, come Watermelons, rappresentazioni realistiche della natura, e soprattutto come Oil Spill: pozzanghere di ceramica nera e lucida sparse sul pavimento della Lisson, a evocare il petrolio che insozza i nostri mari, le nostre terre, l'aria che respiriamo e certo anche qualche altra cosa.

Personalmente ricordo che provai simpatia per Ai Weiwei quando decise di occupare la sala delle turbine alla Tate Modern (era il 2010) con un mare di semi di girasoli in ceramica, in tutto e per tutto identici a quelli veri. Circolarono immagini dei visitatori, grandi, piccini, adulti e ragazzini, che si tuffavano, si rotolavano, scherzavano e giocavano in mezzo a quella miriade di chicchi. Ai Weiwei li stava facendo fessi. Quelle migliaia di semi di ceramica erano state fatte a mano da centinaia di artigiani cinesi ed erano la metafora dei milioni di prodotti realizzati grazie alla manodopera cinese, che ogni giorno dilagano nel mercato occidentale, riempiendo le nostre case, i nostri negozi, le nostre pattumiere. Sunflower Seeds era il simbolo del lavoro ben poco tutelato dei lavoratori cinesi,  fra cui sappiamo si contano anche moltissimi minori, che permettono all'Occidente di avere sempre di più in termini di mercato e all'Oriente sempre di più in termini di fatturato.

La beffa delle beffe arrivò quando sopraggiunse il sospetto che quei semi di ceramica rilasciassero sostanze tossiche nell'aria e che quindi fossero dannosi per i visitatori che ci sguazzavano. Il dubbio condiviso dalla madre che guarda i figli gingillarsi con i balocchi acquistati a pochi euro nel negozietto sottocasa, quelli su cui c’è stampata la scritta “Made in China” e di cui ogni tanto si parla in tv o sui giornali quando finiscono sequestrati dalla Guardia di Finanza.

Una bambina gioca nell'installazione londinese
di Ai Weiwei alla Tate Modern

Le mie aspettative per l'arrivo a Milano di Ai Weiwei sono alte. Mi aspetto qualche bella provocazione, possibilmente con l'opinione pubblica che grida allo scandalo. Altrimenti, caro Weiwei, sappi che per me sarai solo una vecchia faina cinese.