lunedì 3 marzo 2014

La grande bellezza, secondo me. Aspettando gli Oscar...

L'indolente Servillo in una scena de "La Grande Bellezza"
Sono andata a vedere La Grande Bellezza non molto tempo fa. Dopo i Golden Globes e in vista degli Oscar se n'è fatto un gran parlare e volevo entrare anche io nella discussione. Sono andata al cinema non senza scetticismi: a volte ci facciamo condizionare talmente dai media da formulare un giudizio su qualcosa che nemmeno conosciamo. E questo era il caso mio e de La Grande Bellezza. A sentirne parlare (in tv soprattutto) pensavo di andare a vedere un film che raccontava dei piaceri dell'attuale dolce vita romana, coatta, ignorante, un po' squallida. Non avevo capito niente, del resto come potevo, se non avevo visto La Grande Bellezza?

Tralasciando numerosi dettagli (la sala in cui l'ho visto, le persone che mi hanno accompagnato e con cui ho discusso, il fatto che, scena dopo scena, si sgretolassero i pregiudizi), direi che Sorrentino mi ha conquistata. Qualcuno si indignerà a riguardo, ma mi sono trovata a pensare che - alleluja - nel cinema italiano qualcuno avesse avuto la sfacciataggine di seguire i passi di Fellini anziché quelli della Commedia-all'-Italiana, della quale non passa giorno senza che qualche regista non se ne autoproclami come degno erede. Di Fellini, ne La Grande Bellezza, ho ritrovato un po' di Otto 1/2 (opera unica e irripetibile), la leggerezza, la nostalgia, ho captato alcuni richiami, ecco. E mi dispiace se, parlando della notte degli Oscar in corso, la tv (tanto per cambiare) abbia sottolineato che l'Italia manca l'Academy Award per il miglior film straniero da 15 anni, riferendosi a La vita è bella, anziché ricordare che 50 anni fa Otto 1/2 si aggiudicava proprio quel premio. L'accostamento 1964 - 2014 mi pareva più azzeccato, tutto qui (e magari di buon auspicio, e adesso chi vuole faccia pure gli scongiuri, per Sorrentino).

Romana flânerie
Detto ciò, La Grande Bellezza mi è sembrata molto più disincantata e disillusa del capolavoro di Fellini. Disilluso è il suo protagonista: Jep è un flâneur, passeggia per Roma, la contempla dai terrazzi, per le strade, è un flâneur rispetto alla città e ai suoi abitanti. Intorno a lui si dibatte una varia e vasta umanità: sceneggiatori in crisi, artisti o sedicenti tali, intellettuali incazzose "dure e pure", omuncoli, delinquenti col completo sartoriale che tirano le fila del Paese... ce n'è di ogni. E la città, con la sua storia, le sue rovine, i suoi monumenti, sta lì come a dire: che vi dibattete a fare poi... tutto questo passerà, credete di essere i primi e gli unici a vivere in questo mondo, ma passerete anche voi, e tutto è stato detto, tutto è stato fatto, tutto è stato scritto. Rilassatevi, godetevela. E un po' è questo lo sguardo di Jep: indolente, benché desideroso di provare ancora una volta il piacere dello stupore, quello che ti assale quando vedi/provi/fai qualcosa di eccezionale per la prima volta. Ma la nostra vita quante prime volte ci può dare?

La locandina tedesca del film
Oltre le allegre baracconate, le messe in scena, le parole che riempiono le bocche, i bla-bla-bla futili e tronfi, tutto scorre come l'acqua delle fontane di Roma, come il fiume, come i ricordi delle stagioni passate, come l'emozione di ogni nostra prima volta.

Se dovessi sintetizzare quello che La Grande Bellezza è stata per me, userei queste parole: niente ai mortali dura, né la notte stellata, né la tragedia, non resta forse che l'esperienza estetica. E allora lasciamoci trasportare dalla musica e dalle immagini dei titoli di coda, e guardiamo ancora una volta Roma, con gli occhi di Jep, lasciandoci portare con lui - come lui - dalle acque del Tevere, nell'ora del tramonto, finché la luce ce lo consentirà.

domenica 2 marzo 2014

12 anni schiavo: le mie pippe mentali, aspettando gli Oscar 2014

La locandina USA del film
Recentemente mi è capitato spesso di dire o sentirmi dire espressioni del tipo: "Viene trattato come un servo perché si pone come se fosse un servo", riguardo ad amici/colleghi/mariti/mogli  rispetto al rapporto non esattamente sano che intrattengono rispettivamente con: l'amico/il capo/il collega/la moglie/il marito dal piglio tirannico.

 Probabilmente ciascuno di noi vive o ha vissuto una relazione in cui si sentiva "costretto", per diversi motivi e con sfumature diverse. Siamo noi che assumiamo comportamenti "funzionali" a certe dinamiche oppure no? Si può fare diversamente? Insomma: anche la libertà ha una dimensione relazionale? E poi, vado a vedere 12 anni schiavo.

Ormai saprete certamente che 12 anni schiavo è una parte, l'ultima, che il già video artista e regista Steve McQuenn ha dedicato al tema della libertà. Prima c'è stato Hunger (la libertà dello spirito nonostante la condizione di un corpo prigioniero, quello dell'attivista nordirlandese Bobby Sands), poi Shame (la libertà di un corpo, quello di un sessuomane, nella condizione di un'anima prigioniera - anche - della solitudine). Adesso, 12 anni schiavo: la libertà (o la schiavitù) possibile di un corpo, di un'anima e di una volontà in mezzo ad altri corpi e anime e volontà. [seguono spoiler...]



1841, Solomon Northup è un uomo libero, un marito, un padre di famiglia, un uomo nero. Una mattina si sveglia in catene: con l'inganno è stato venduto come schiavo e per i dodici anni del titolo ne subirà di ogni, cambierà più volte padrone, esperirà soprusi e disperazione, finché finalmente incontrerà l'uomo che potrà aiutarlo a liberarsi.

Colpisce il dialogo che si ascolta nel viaggio in battello verso le piantagioni nel Sud degli Stati Uniti, quando Solomon ed altri compagni di sventura valutano il da farsi: c'è chi dice che dovrebbero ribellarsi, chi dice che l'unico rimedio è tacere e obbedire, Solomon sentenzia: "Io non voglio sopravvivere, io voglio vivere". Per gradi gli levano: gli abiti, il nome (d'ora in poi lo chiameranno Pleth), l'identità (che non si azzardi a rivelare che è un uomo colto, o passerà dei guai). E intanto, tu spettatore, ti rendi conto di cosa significa togliere la dignità a un uomo giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno... Man mano che il film va avanti, Solomon/Pleth si incurva sempre di più, sopravvive. E tu, spettatore, ora pensi che dovrebbe fuggire o reagire, ora pensi che farebbe meglio a stare zitto e cheto per evitare i peggiori guai.

Visto al limite massimo prima della cerimonia degli Oscar...

Io, spettatrice, fuori dal cinema ho pensato che sia il corpo sia l'anima di Solomon siano diventati schiavi.
Che tra i personaggi del film, schiavisti e schiavi, poveri diavoli e mercanti, uomini, donne, bambini, non ne ho trovato uno che sia stato libero in senso assoluto (o forse sì: l'uomo che aiuta Pleth a tornare Solomon).

Penso che il film sia un film storico, non tanto perché è ambientato nel 1841, quanto perché mi fa pensare a che cos'è l'uomo rispetto alla Storia, rispetto alla vita che vive e mi domando: in quali limiti ci troviamo ad agire, nella nostra vita che domani sarà diventata Storia? Cosa limita la nostra azione e la nostra libertà? La Legge (che nel 1841 consentiva la schiavitù)? Il "Sistema" (che, in una piantagione di cotone del 1841, giustifica l'indifferenza di un gruppo di schiavi  mentre lì davanti a loro un uomo viene lasciato ore appeso per il collo)? Gli Altri (quelli che ti tirano in mezzo ai loro ricatti sentimentali, come quelli tra Epps e la moglie)? La Paura (e qui hai voglia a indicare esempi...)? Le Circostanze (quelle per cui, minacciato altrimenti di essere ammazzato, Solomon frusta una sua pari quasi uccidendola)? Noi stessi (perché scopriamo fino a quanto possiamo essere bestie e fino a quanto non abbiamo il coraggio di essere o di fare diversamente)?

Mi ha stupito, nel finale, ascoltare Solomon tornare a casa e chiedere perdono alla sua famiglia. Per quale motivo il regista gli fa dire quelle parole? Mi ha stupito quanta poca pace mi abbia dato la risposta di sua moglie: "Non c'è niente da perdonare". La scena, le frasi mi riecheggiano nella testa: Solomon deve farsi perdonare di non avere trovato il modo di tornare a casa prima? Deve farsi perdonare di essere stato lontano mentre i suoi figli crescevano? Di non aver potuto nulla per salvare i suoi compagni? Quel "Non c'è niente da perdonare" mi lascia ancora più inquieta. Non c'è niente da perdonare perché siamo, saremmo stati, tutti come te, Solomon?