lunedì 5 novembre 2012

Chance & Change

Avete mai riflettuto sulla parola francese chance? Può indicare sia una possibilità, sia un'occasione. È estremamente vicina alla parola change, che vuol dire - tanto in francese quanto in inglese - cambiamento. E lo sa bene Obama, che nel 2007 (sì, sembra lontanissimo) ha trasformato Change in uno slogan elettorale, un auspicio, un imperativo. E lo sa anche il suo avversario Mitt Romney, che nell'ormai conclusa campagna elettorale 2012, si è affidato - tra gli altri - al claim Real Change day by day. Più che in ogni altra, proprio nella cultura americana è inculcata l'idea, la potenza del cambiamento, della second chance. Decine di film e libri a stelle e strisce ci comunicano il diritto di qualunque essere umano ad avere una seconda opportunità, per cambiare, per dimostrare al mondo il proprio valore, per rinascere qui, nella vita reale, in attesa di una eventuale resurrezione in una vita altra.



Nel mondo anglosassone cambiare non è peccato, non si nasce camerieri o impiegati per morire tali. Ma questo non è un post a sostegno della tesi montiana per cui il-posto-fisso-in-azienda-è-noioso. È un post che parla di possibilità (chance) concrete, non di sogni a occhi aperti, né di improvvisi, incontrollati impeti a mollare, via, verso un non si sa quale miglior destino. In questi mesi ho sentito caterve di persone intenzionate a lasciare il proprio posto di lavoro per logoramento, ipotizzare business alternativi, ardire a svolte che non giungono mai. Qualcuno, talmente allo stremo, ha preferito il sussidio di disoccupazione anziché accettare l'ennesimo rinnovo contrattuale per un impiego odiatissimo, altri quel rinnovo non l'hanno manco visto e si ritrovano dall'oggi al domani costretti a fare i conti con il fatidico change. Nella cultura italiana la second chance non ha troppa libera cittadinanza e sto parlando (anche) della "pluriennale esperienza nel settore" spesso richiesta dal mercato del lavoro, ma anche di una predisposizione personale al cambiamento di ciascuno di noi.

Poi una sera mi è capitato di sentir parlare di Accademia Felicità. Che nome pretenzioso, ho pensato. E invece è un nome adatto per un'idea coraggiosa e intelligente. Il nome corretto è AccademiA Felicità, con due maiuscole, una all'inizio e una alla fine. Direi che si tratta di una piccola società che si rivolge a coloro che intendono cambiare vita o prendere in mano la propria, dandole un'impronta nuova e fresca, più vicina ai propri desideri. Quello che fa l'AccademiA potrebbe essere molto aleatorio, se non contemplasse una forte dimensione progettuale: chi si mette nella mani di Francesca e Marco - i due fondatori - deve aprirsi come un libro, svelando capacità, ambizioni e angosce, ingredienti necessar per avviarsi lungo le tappe del cambiamento.

Francesca e Marco si sono occupati a lungo di personal e business coaching per grandi aziende, poi hanno preso una strada differente, hanno guardato all'esempio della londinese School of Life  e hanno avviato la loro AccademiA Felicità. Funziona? Bisognerebbe chiederlo ad Alessandro, uno chef che con l'intenzione di arricchire il suo curriculum con esperienze che non contemplino le cucine di grandi ristoranti ha incontrato l'Accademia. Risultato: si trasforma in chef a domicilio, inizia a mescolare ricette e musica rock, il passato londinese al presente italiano, e - chissà - quasi quasi tutto questo finirà in un libro.

Non so quale futuro attenderà l'Accademia o Andrea, spero che le idee di cambiamento e di second chance diventino nostre, e che un giorno (molto vicino) certe parole possano esserci molto familiari, come quelle che si leggono nel libro di Mario Calabresi, La fortuna non esiste. Parole come queste del poeta (e diplomatico) Paul Claudel:

Nel temperamento americano c’è una qualità, chiamata resiliency, che abbraccia i concetti di elasticità, di rimbalzo, di risorsa e di buon umore. Una ragazza perde il patrimonio, senza stare a commiserarsi si metterà a lavare i piatti e a fabbricare cappelli. Uno studente non si sentirà svilito lavorando qualche ora al giorno in un garage o in un caffè. Ho visitato l’America alla fine della presidenza Hoover, in una delle ore più tragiche della sua storia, quando tutte le banche avevano chiuso i battenti e la vita economica era ferma. L’angoscia stringeva i cuori, ma l’allegria e la fiducia splendevano nei volti di tutti. Ad ascoltare le frasi che si scambiavano si sarebbe detto che era tutto un enorme scherzo. E se qualche finanziere si gettava dalla finestra, non posso impedirmi di pensare che lo facesse nella ingannevole speranza di rimbalzare.

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