giovedì 23 maggio 2013

Fnac, non ti scorderò

Difficilmente riusciamo ad accettare l'idea di fine. La nostra, tanto per cominciare, quella degli altri come anche quella della vita degli oggetti che ci circondano, nella misura in cui rappresentano un simbolo o un affetto. Anche i luoghi sono destinati alla stessa sorte. Ce ne accorgiamo soltanto quando quella fine diventa concreta, meravigliandoci perfino della profondità del rammarico che suscita. Che la Fnac avrebbe chiuso i battenti si sapeva già da un po'. La notizia girava da mesi, la appresi con stupore e incredulità, con una certa ottusità. Come quando non si vuol credere a una triste evidenza. Pare che il giorno sia arrivato, pare che sarà sabato 25 maggio. Io non sono pronta.

Su Facebook girano fotografie di scaffali vuoti, sale deserte che fanno da scenografia allo spettacolo di presenze spettrali, quelle dei commessi, quelle dei clienti. Direi che si tratta di gente a caccia dell'ultimo affare. Forse sì, o forse sono nostalgici preventivi che vogliono gustare il sapore di un ultimo giro alla Fnac. Ancora un acquisto prezioso, ancora un ricordo. Io appartengo alla seconda categoria. Quelle foto che giravano online mi hanno intimorita: e se fosse stato troppo tardi per tornare un'ultima volta? Così stamattina sono andata anch'io in via Torino per il mio personale addio a Fnac.

L'ultimo, triste, caffè


Ho varcato la soglia salutando, come sempre, l'omone nero della sicurezza, grande e grosso ma dallo sguardo buono. Lui ha ricambiato. Ci andavo così spesso alla Fnac che forse un po' ha imparato a riconoscermi. Custode di offerte, sconti e proposte e tentazioni librarie, musicali, filmiche. Mannaggia, quanti soldi ho speso lì, all'incrocio con via della Palla! Pardon, volevo dire investito! Sono passata nei corridoi del reparto musica al pian terreno: dov'è finita la folla in cerca spasmodica di dischi? Non ho avuto il coraggio di passare là dove portavo - una settimana sì, l'altra pure - i rullini di mio marito da sviluppare. Dove c'erano il boccione dell'acqua da bere, i divani comodi dove aspettare il proprio turno mentre una varia e vasta umanità ti passava di fianco. Ho scrutato i dvd rimasti e poi sono salita ancora di un piano, per fare colazione con cappuccino e brioche al bar. Amato bar, ricorderò la tua torta di mele con crema alla vaniglia, il rifugio che mi davi durante gli acquazzoni i cantanti e gli scrittori che arrivavano a presentare il loro ultimo lavoro... Mi sono seduta al tavolino attaccato alla finestra del secondo piano, ma i soliti camerieri, spiritosi e chiacchieroni non c'erano più. Ho pagato, ho gustato e mi sono alzata. Ho trascurato di passare nei bagni: vogliamo parlare dei bagni della Fnac? Sempre puliti, un porto sicuro nelle emergenze urbane.

Il volume di Linda McCartney, ultimo cimelio dalla Fnac

Qualche commesso - non qualcuno dei soliti però - si fa largo con grossi carrelli per spostare la merce in vendita dal magazzino agli scaffali. Altri invece svuotano gli espositori: dove andrà a finire tutta quella roba? Sono al terzo piano, quello meno contagiato dalla desolazione: sono ancora tanti i libri che campeggiano a destra e a manca. Ma anche qui è la sensazione che si respira a segare le gambe. C'è un silenzio irreale: come se le pareti stesse fossero incredule del loro destino. Vorrei portarmi via mezzo negozio, ma non si tratta del solito shopping gioioso. Non c'è entusiasmo nel portarsi a casa Life in photographs di Linda McCartney a 15 Euro. Arrivo in cassa e trovo la prima commessa gentile di oggi. Non reggo e glielo dico che tutto questo è incredibile, che è un disastro, che mi sento uno sciacallo. Un avvoltoio addosso alla carcassa di un cadavere. Mi disgusta anche solo l'idea che Fnac possa essere un cadavere. Piango e la commessa, giustamente mi fa notare la sua situazione: "Da lunedì che ne sarà di noi?".

Mi viene in mente la chiusura del Negozio dietro l'angolo di Meg Ryan in C'è posta per te. L'assurdo è che qui non sta chiudendo un negozio di quartiere, sta chiudendo un multistore, o megastore, chiamatelo come volete. Ma Fnac di via Torino non era niente del genere: era un grande negozio con un'anima nel mezzo del centro di Milano. Per quanto frequenti la Feltrinelli di Piazza Piemonte o il Mondadori Multicenter di via Marghera, nessuno di questi è paragonabile a Fnac. Che è stata una scatola di esperienze e di emozioni tra le vetrine di una via caotica, la tappa umana nel flusso delle commissioni e degli impegni, il ristoro e la ricarica dopo gli scleri. Il bello di certi posti è che sai che qualunque succeda, ci sono. E invece no.
 
Fnac era la megalibreria Fox di C'è posta per te, ma con il cuore (e i commessi) del Negozio dietro l'angolo.

Sempre la cara Meg Ryan, sempre in quel film là, dice, abbassando la saracinesca del suo adorato negozio:

"Tra poco non saremo che un ricordo. Di sicuro ci sarà qualche sciocco che penserà che è un tributo da pagare a questa città il fatto che ti cambi continuamente sotto gli occhi in modo tale che non ci puoi mai contare".
 
Senza pensare che Milano non è New York. E questo non risolve la tristezza.
 
Ciao Fnac. Grazie degli incontri, degli sconti, dei cappuccini, delle pisciate senza prendersi la candidosi, grazie del bookcrossing ai chiostri di San Barnaba, grazie dei divanetti. Grazie del calore. Grazie di tutto.

 

E le lacrime continuano con... Harry Nilsson:
Remember, dalla colonna sonora di C'è posta per te.

sabato 30 marzo 2013

Grazia Neri. La fotografia, che malattia

Presentando il suo libro alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, Grazia Neri si lascia andare a un commento adatto al luogo: "Quanto mi fanno arrabbiare quei libri senza foto dell'autore in quarta di copertina! Da ragazza sognavo di guardare in faccia lo scrittore che avevo appena finito di leggere, mi piace guardare che tipo è questo scrittore e quanto più un romanzo mi conivolge, tanto più vederlo in faccia diventa una malattia!". Tra i ritratti di questa categoria, manco a dirlo, la Neri ha una predilezione per quelli di Gisèle Freund.

Samuel Beckett fotografato da Gisèle Freund

La Grazia - diamoci del tu, suvvia - racconta che lo stupore dalle fotografie del futuro arriverà probabilmente dai reportage naturalistici ("il pesce con i denti umani scoperto in Florida!"), che sui giornali le foto che si vedono sono già e saranno sempre più sempre le stesse perché tutti useranno le stesse agenzie ("e questo non ci educa a leggere una foto, nè a decidere se una foto è onesta o se vuole e sa rappresentare l'articolo che accompagna"), che la professionalità degli archivisti la preoccupa ("perché da loro dipende l'accesso, un domani, alla conoscenza del nostro presente, il rischio è perdere il nostro patrimonio fotografico"). E ci tiene a ribadire che "una fotografia non dice nè è la verità. Può essere una cosa vicina alla verità, se inserita in una giusta sequenza, se accompagnata da una didascalia fatta bene e da un editing corretto".

Devo dire che sono d'accordo con lei, su tutta la linea, ma non è solo per questo che ho comprato La mia fotografia (Feltrinelli, 25 Euro), piuttosto perché le sue 448 pagine trasudano la ricchezza di quelle vite vissute col piede sull'acceleratore, intense perchè piene di incontri e storie e idee che raramente possono concentrarsi in una sola persona. Il destino così vuole, talvolta. E a noi, comuni mortali non resta che rosicare/sognare/imparare, fate voi.


Vrginia Woolf, sempre per Gisèle Freund


venerdì 29 marzo 2013

Fenomenologia della proiezione stampa/3 Cappuccino e cinema

"Cinema e vampirismo hanno molto in comune", diceva Gianni Canova all'inaugurazione della mostra su Dracula in Triennale. Ed è quello che penso ogni volta che esco da un cinema prima delle 12.30, fresca - ça va sans dire - di anteprima stampa. Non è raro infatti che vengano pianificate al mattino. I primi tempi la cosa mi lasciava interdetta. Fa parecchio strano arrivare al tè delle cinque (per dire) e potersene uscire con frasi del tipo: "Sai, sono stata al cinema stamane...".

Ad andare al cinema di mattina ci si fa il callo, resta la sensazione che sia un enorme privilegio: poter pensare che gran parte degli adulti sono chiusi in un ufficio a sclerare per i soliti motivi, mentre noi si sta in quello che è un po' un parco giochi della mente.


In genere le anteprime riservate ai giornalisti le organizzano nei cinema del centro milanese: Apollo e Odeon per intenderci (anche perché altre sale, nel centro storico, non esistono quasi più e a tal proposito vi invito a farvi un giretto qui). Dovessi scegliere però il cinema prediletto per queste proiezioni, risponderei l'Anteo. Non lo raggiungo più facilmente degli altri due, anzi. Per arrivarci scendo dalla metro a Moscova (linea verde, non rossa... ahi ahi ahi) e mi tocca percorrere un tragitto (Corso Garibaldi) dove il livello di tamarreide (à la Corona, per intenderci) si attenua giustappunto solo nelle ore del mattino.

Intanto a favore dell'Anteo c'è che, superato Princi (e il suo fantastico cappuccino), superato il Radetzky (brrr...), superato pure Aldo Coppola, si svolta in via Marsala, e poi in via Milazzo e qui  prima di arrivare al cinema si costeggia una scuola dell'infanzia. L'edificio ha un piano seminterrato, con altissime finestre che arrivano al livello del marciapiede, passando si vedono le aule. Spesso le proiezioni iniziano intorno alle 10, così capita non di rado che laggiù, protetti dal solito tran tran, i bambini siano impegnati nelle loro attività. Capita poi sulla via del ritorno, usciti dall'Anteo, li si veda pranzare. Questa piccola e fugace esperienza mi mette di buon umore per almeno 5 minuti.

Perché penso a com'ero io alla loro età (oddio, sto invecchiando!), perché penso a quanto si stiano divertendo (spero), perché penso a come sarebbe la mia vita se avessi continuato i miei studi sulla linea retta che dall'istituto magistrale (ok, sono vecchia) avrebbe dovuto in un'aula a insegnare forse proprio a quei bimbi (forse sono loro, ora, a pensare brrrr...). Reminiscenze dell'infanzia, nostalgia, fuga dalla realtà ed endorfine (o adrenalina) scaricate dalla visione cinematografica si mescolano. E anche questo è la magia del cinema (in anteprima riservata).


venerdì 8 marzo 2013

Isolamento, giorno 4

Da domenica sera non metto il naso fuori da casa, salvo quando sono riuscita finalmente ad andare dal medico, che ha disposto il riposo forzato fino a venerdì. Cinque giorni chiusa in casa per malattia, insomma. Non mi succedeva dalla quinta elementare, credo. Se non conto la lunga, lunghissima degenza post intervento all'orecchio nel 2009, quando restai segregata per due, tre settimane. E insomma, cinque giorni son lunghi, che si fa? Che si fa quando hai un mal di schiena così tosto che non riesci a stare seduta, a star sdraiata, a leggere, a guardare la tv, a usare il pc? Beh, in quel caso ti stracci le palle, per usare un francesismo. Da malati, non sempre il corpo risponde a quel che vorremmo fare, talvolta neanche la testa. Tra assenza di volontà e inedia, in malattia sentiamo il diritto di tornare bambini e assecondare gli istinti. Ecco una personale top ten di parole, opere e (parecchie) omissioni che l'indisposizione porta con sé.

Anche le figone si ammalano. Tipo Samantha Jones.

  1. Appena mi rimetto in forma, mi iscrivo a yoga/pilates
    Sì, certo. Siffatto buon proposito resterà tale, cara mia, perché se è vero che conosco la tua pellaccia, so anche che in XX anni di vita non hai mai fatto sport in maniera costante. Anzi, ora che ci penso, di costante nella tua vita non hai fatto un tubo. Forse, leggere e andare al cinema (come diceva quel tale, di cui non ricordo il nome).
  2. Non erano avanzati dei torroncini al pistacchio?!L'astenia propria di ogni morbo riconduce l'umano ai bisogni primordiali: dormire e, soprattutto, mangiare (salvo non siate affetti da gastroenterite acuta). Tanto meno sono le forze di cucinare - e di lavare i piatti - tante più schifezze ingurgiterete. Fatte fuori le patatine al lime e pepe rosa, cercherete di stanare i rimasugli del pacco di Natale. Occhio, perché una volta dato fondo alla dispensa, l'Esselunga resterà un miraggio (siete in malattia!) e sarete tentate di mettere da parte l'idiosincrasia per il torrone DURO all'arancia.
  3. Da domani mangio sano!
    L'ennesimo cespo di insalata sta languendo in frigo. Il freezer trabocca di carciofi surgelati. Magari mi faccio un purè... Mamma, dove sei?!!
  4. Vabbè, almeno non posso cedere allo shopping compulsivo...
    Risparmiare perché impossibilitati a spendere causa malattia temporanea è semplicemente una sciocchezza. E non conta solo il conto (ops!) della farmacia o lo stipendio a fine mese, contano le tentazioni che l'infermità temporanea o la tecnologia si portano dietro (vedi al punto successivo).
  5. ... beh, potrei comprarlo su Amazon...
    La catatonia e la letargia che accompagnano i primi giorni di affezione lasceranno spazio prima o poi a ore vigili o insonni. Se vi riesce, leggerete una rivista femminile, che altro non è se non un ricettacolo di pubblicità, Amazon fa il resto. A meno che non preferiate le vecchie maniere.
  6. ... quasi quasi aspetto e me lo compro in negozio, che dà più soddisfazione!Dapprima inizierete a fare liste. Liste di ciò di cui avete bisogno. Operazione che deriva in genere da altre due: sfogliare riviste appunto, riordinare i cassetti. Quest'ultima si palesa, in genere, appena si recuperano un po' le forze. Io ho riordinato il cassetto del make-up al quarto giorno di segregazione e oltre ad aver fatto pulizia di ombretti blu elettrico del 2006 e simili, ho buttato giù una lista di quel che mi manca (o che dovrei sostituire). Per un importo pari a 250-300 Euro. Fondotinta più, fondotinta meno.
  7. Finalmente ho un po' di tempo per leggere!
    Se non vi scoppia il cervello, non avete subito un intervento agli occhi o appena il torcicollo ve lo consente, i libri saranno il vostro pensiero. Ma siccome chi ha pane non ha denti, la concentrazione sarà dura a persistere (causa altri concorrenti, vedi post successivi). Così mentre leggo Jane Austen, mi capita di pensare senza motivo alcuno a Dante, a Maria Corti, a quell'edizione della Divina Commedia da lei curata che avevo al liceo e poi ho ri-ven-du-to al Libraccio. Come ho potuto? Per quei quattro spicci! Non mi ricordo nemmeno più la casa editrice! ... E se non l'avesse interamente curata Maria Corti?! Aspetta, ma io non ho in casa una copia de I cani abbaiano! Però... se leggessi l'edizione di Minimum Fax di Tenera è la notte...
  8. La tv la accendo solo per farmi compagnia...
    Fino ad ora non conoscevo le meraviglie del digitale terrestre! Oddio, forse neanche adesso, visto che oso poco e ripiego sulle repliche delle repliche delle repliche (etc.) dei serial della gioventù. Con un velo di malinconia, mi accorgo che tutta la saggezza acquisita in questi giorni - i palinsesti di quei quattro o cinque canali imparati a memoria- verrà vanificata al mio ritorno al lavoro.
  9. ... così mi disintossico un po' dallo smartphone!
    L'infermità come condizione per creare uno splendido isolamento? Siete allettate, mica in Polinesia, eppure io ci ho creduto. Il tempo di un pensiero fugace, la consapevolezza della batteria in più con cui arrivavo a fine giornata rispetto a un normale giorno di lavoro, ed eccomi pranzare e cenare con una forchetta in una mano e il telefono nell'altra. Tu, smartphone, fedele amico che mai mi abbandonasti durante la malattia!
  10. Non vedo l'ora di tornare in società!
    Lo splendido isolamento vi ha ormai triturato i cosiddetti, bramate di respirare aria fresca (benché umidiccia, qui a Milano), sognate una passeggiata fino al giornalaio, un cappuccino come si deve, invidiate perfino le casalinghe in coda al supermarket (o, a questo punto, perfino in farmacia), o quelle tanto in forza da passare il mocio... Pensate di essere pronte... invece. Invece MI aspetta quel periodo di iniziazione, di lento riapproriarsi della vita sociale, che segue subito dopo la convalescenza. Un periodo fatto di 3/4 giorni di rimbambimento, in cui articolare un suono in pubblico richiede un certo sforzo, il corpo vi sembra tornato ma con altre proporzioni (perché continuo a battere contro a tutto?!)... Boh, magari capita solo a me, ma ogni volta che mi ammalo e poi guarisco succede che prima di riprendere il ritmo di prima ci metto un po'. Oddio, mi sta già venendo l'ansia... meno male che danno ancora Friends.

martedì 26 febbraio 2013

Non avevo capito niente

Oltre all'esistenza e all'oblio, c'è un terzo luogo dove stare.

E' stata una giornata da dimenticare e per affari personali e per affari strapubblici. I fatti privati possono restare tali per oggi, quelli noti fanno capo a parole ed eventi quali "elezioni" e "instabilità". E non voglio aggiungere altro. Per questo, dopo aver fatto il pieno, indovinando un principio di ulcera o di esaurimento psico-fisico, mi sono seduta sul divano, ho premuto il tasto mute del telecomando e ho preso in mano un romanzo che - francamente - pensavo di finire prima, Miele di Ian McEwan.

Miele, di Ian McEwan


All'inizio di febbraio iniziavo a leggerlo, galvanizzata dalle critiche positive che leggevo sui giornali. Ho fatto una fatica del diavolo per arrivare a pagina 100, pensando che lì sarebbe arrivata la svolta. E invece niente. Arrivo alla 200, e niente. Per di più inizio a intuire i colpi di scena che McEwan avrebbe poi sfoderato. O così credevo, insomma: arrivo a stasera, 21 capitoli alle spalle su 22. Il mio giudizio era ancora stabile (sì, ok, bello ma... overrated, punto) e poi, bum. Ultime venti pagine piene di senso. Meglio: danno un senso al romanzo, poi lo smontano, poi lo rimontano. Pazzesco, geniale. Non so se stia spoilerando o meno, ma il fatto è che l'autore prende tutti i personaggi del suo libro e li smaschera come imbroglioni e imbrogliati, salvo poi salvarli in zona Cesarini. Nel corso dell'intreccio, il caso se li è mangiati, e la loro stessa volontà li ha giocati. Ne esce un solo vincitore. Che a prima vista è Lo Scrittore (diciamo piuttosto La Scrittura, o La Narrazione), perché il Lettore viene turlupinato per tutta la durata del romanzo tanto quanto la sua protagonista, Serena Frome. A ben guardare, però, non è neanche così. Miele mi sembra una doversa, splendida lode al Patto tra Scrittore e Lettore che rende possibile il potere della Narrativa.

Dalla lettura di Miele deduco o ricevo conferma su un paio di cose:

  1. solo la fine dà un senso al pregresso.
    Ciò mi solleva e mi tramortisce: perché ogni scelta che prendiamo o la sorte dove scivoliamo, niente ha un senso in sé e per sé, so... take it easy! ma allora non sappiamo nemmeno quanto amara sarà la sorte o sbagliato il nostro giudizio, se è vero che non siamo noi a stabilire o conoscere come, quando e dove andremo a finire;
  2. tra la durezza del mondo reale e la leggerezza di cui la Letteratura è capace, ho sempre preferito quest'ultima. Sono condananta all'irrealtà? La Letteratura è una fuga, anziché una soluzione? La frase che trovate in cima a questo post mi ha illuso che ci fosse una terza via. Sicché vado a riprenderla a pagina 334. E salta fuori che l'ho letta male io, inconsciamente male, tragicamente male. La frase esatta dice così:

Oltre all'esistenza e all'oblio, tuttavia, non c'è un terzo luogo dove stare.
 
Ian McEwan. Colui che mi ha fregata, deliziandomi

martedì 19 febbraio 2013

Doisneau, Parigi a Milano

Il concetto di flânerie avrebbe potuto essere formulato in inglese, da un poeta inglese? Wikipedia insegna che il termine fu coniato da Baudelaire e che ha a che vedere con l'avvento della modernità. Ma Londra non era certo seconda a Parigi in fatto di modernità, nell'Ottocento. Eppure, come sa bene Woody Allen che dedica all'immagine del flâneur un film intero, Midnight in Paris, è una e una soltanto la città in cui perdersi per le strade e nei pensieri, la città dove il naufragar è dolce in mezzo agli arrondissement, e la città in questione è Parigi, ça va sans dire.


Tutto ciò solo per introdurre il desiderio impaziente di visitare la mostra milanese di Robert Doisneau, IL fotografo flâneur di Parigi, in concorso di colpa nella costruzione del mito parigino che vuole la capitale di Francia fuggevole, malinconica, vitale, decadente, intrigante, promettente, in bianco e nero... nostalgica. E molto altro. E non conosco nessuno che una volta vissuta questa città abbia voluto smentire. Una delle immagini cult della Parigi firmata Doisneau è quella dei due giovani innamorati che si baciano davanti all'Hotel de Ville. Oramai lo sanno anche i sassi che la foto fu "pianificata": Doisneau assoldò due ragazzi per realizzare un servizio per Life, et voilà lo scatto che ha consegnato il fotografo alla storia.

Il bacio all'Hotel de Ville. Di Robert Doisneau, ça va sans dire!

Molto meno celebri sono alcune sue affermazioni, come quelle che ho trovato sul sito di Palazzo della Esposizioni, dove l'espozione è transitata prima di arrivare a Milano. Parole che rivelano un Doisneau ironico, che trasudano flânerie e fanno venire voglia di mettersi il cappotto - se fosse estate sarebbe un bel problema -, uscire di casa e passeggiare un po'. Poi fermarsi in un caffè, restarci qualche ora e vedere che succede. A Milano probabilmente qualche cameriere verrebbe a tampinarci per farci ordinare qualcosa da mangiare o da bere, il resto degli avventori (che parola desueta!) non ci si filerebbe manco per sbaglio, la noia (forse) vincerebbe. Prima di dire "A Parigi, però..." dovremmo provarci sul serio, a uscire e vedere che succede. Perciò segnatevi tra le cose da fare prima o poi nella vita: sedersi in un bar (o su una panchina) e aspettare. E adesso ascoltatevi Doisneau:

Ho molto camminato per Parigi, prima sul pavè e poi sull'asfalto, solcando in lungo e in largo per mezzo secolo la città. Un esercizio che non richiede doti fisiche eccezionali. Se Dio vuole Parigi non è Los Angeles e qui la condizione di pedone non è un indizio di miseria.
[...]
Un giorno, tuttavia, mi sono voluto levare la voglia di vedere la città con gli occhi dei turisti organizzati. Per cui sono salito su uno di quei pullman che sembrano delle balene sonorizzate, deciso a lasciarmi rifilare la tintinnante paccottiglia riservata alla gente che ha fretta.
[...]
Ho quindi visto la ghigliottina in una cantina del Quartiere latino, gli apaches della Bastiglia, la gigolette dalla gonna a spacco arrampicata sulle ginocchia di un membro del consiglio presbiteriale di una cittadina dell'Ohio. A Montmartre ho visto cadere a terra i reggiseni delle donne di Parigi e infine, dopo le ragazzone coperte di piume degli Champs Élysées, mi sono ritrovato sul marciapiede, completamente stordito dall'organizzazione di piaceri ai quali erano stati tolti quei preamboli che fanno perdere tanto tempo.
 
Il protagonista di Midnight in Paris. Flâneur incallito

All'indomani di quella spedizione, ho scoperto il raro lusso dell'immobilità. In una città in cui tutto è in movimento, non è semplice contrastare l'istinto gregario. Bisogna avere il coraggio di piazzarsi in un punto e di restarci immobili: e non per qualche minuto, ma per un'ora buona, magari anche due. Bisogna trasformarsi in una statua senza piedistallo, ed è buffo, in quei casi, vedere fino a  che punto si riesca ad attirare i naufraghi del movimento.

"Avrebbe mica un cavatappi?"
"Parla francese?"
 "Ha visto per caso un cagnolino bianco con un guinzaglio rosso?"
 [...]
Vedere, a volte, significa costruirsi, con i mezzi a disposizione, un teatrino e aspettare gli attori.
 Aspettare chi? Non lo so, però aspetto.
Io spero sempre, e quando uno ci crede con forza è difficile che qualcuno non finisca per arrivare.
[...] 
 mi sforzo di variare i miei itinerari per non cadere nel confort dell'abitudine, che porta alla fiacca.
So per esperienza che dalle parti del faubourgs lo spettacolo è sempre generoso. Nelle scenografie che assistono alle sofferenze umane e che mi sembrano cariche di nobiltà, i gesti della vita vengono compiuti con semplicità e i voti di coloro che al mattino si alzano presto sono commoventi. (...) non provo quasi nessun piacere nel percorrere i quartieri che non hanno mai conosciuto le barricate.
[...]
Lì la vita è invisibile, come nascosta per i suoi traffici segreti. Chiuso all'esterno, penso all'ingenua baronessa Haussmann che diceva con aria affettata: " Che strano! Ogni volta che mio marito compra un edificio, arrivano subito i demolitori! " Anche oggi si demolisce molto.
 Mi rifiuto di piangere sulle rovine.  La bellezza, per commuovere, dev'essere effimera.
Il certificato d'autenticità viene rilasciato dai bulldozer, punto e basta.
Ho visto sparire uno a  uno i miei punti di riferimento personali: il lastrico a forma di cuore davanti all'Institut, il crocifisso davanti ai gasometri di rue de l'Évangile...
[...]
Quindi la città mi sembra sempre più popolata da fantasmi.
 "Ma che cosa dice? I fantasmi ci sono sempre stati! - Si, ma quelli degli altri mi lasciano indifferente."

lunedì 18 febbraio 2013

Un giorno questo dolore...

Mentre febbraio mi scivola via dalle mani senza che me ne accorga, mentre rincorro le ultime frittelle ripiene di crema, acciuffandole prima che inizi la Quaresima, mentre... eccetera eccetera... succede che per circostanze particolari e fortuite mi ritrovo ad assitere ad alcune lezioni tenute da medici specialisti all'Università Cattolica. Sono in gran parte professionisti che operano in situazioni estreme: c'è l'oncologo che cura i bambini malati di leucemia, il medico legale che presta assitenza in un centro di aiuto per vittime di violenza, medici specializzati nella cura del malato di HIV... Non insegnano qualcosa di specifico in queste lezioni, portano più che altro la loro esperienza: forte, a tratti indigesta, ma ricca, ricchissima.

Che ci azzeccano Paul e Linda McCartney?
Per dire che finchè c'è amore c'è speranza
(tanto per cambiare)


Messi a confronto con la mia routine (quella di chiunque, credo), sembrano eroi, anzi Supereroi, ma in carne e ossa. Probabilmente non dico nulla di nuovo, e lo sapete. Sono grata di averli incontrati, perché sono diventati un punto di riferimento concreto delle mie di esperienze. Mi ricordano di non lamentrami troppo, di alzare lo sguardo oltre le contingenze. Ascoltare il dottor Jankovic del San Gerardo di Monza è una grande fortuna. Ha a che fare ogni giorno con famiglie che affrontano la dannazione di vedere i propri figli ammalarsi di leucemia. Lui stesso ha vissuto la malattia ed è una persona semplicemente splendida, grazie - anche - alle sfide con cui si misura ogni giorno. Ha fatto del dialogo (comunicazione della diagnosi compresa) con i suoi piccoli pazienti uno dei principi del suo mestiere, anche se dice che amici dei pazienti e delle loro famiglie lo si deve diventare solo dopo. Dopo cosa? La guarigione, quando va bene, la morte quando no. Legge le lettere di infermieri, bambini, genitori che ha conosciuto negli anni, quella di una ragazzina di 12 anni che scrive: "il valore di una vita si riconosce da come si vive la propria morte". Poi tocca a quella di una diciottenne. Una lettera che sarebbe da pubblicare integralmente perché è impossibile riprodurre il senso di maturità con cui racconta la sua via crucis (sociale, oltre che fisica) verso la salvezza, E poi ci legge la poesia che un suo paziente gli regalò. Jankovic dice che gli è stata donata dall'unico ragazzo che, guardandolo dritto in faccia, gli ha chiesto: "Dottore, sto morendo?". Lui racconta di aver dissimulato, di averlo tirato su. Poche ore dopo è spirato, così ci racconta il dottore, e tradisce un po' di commozione. La poesia è Ode alla vita di Martha Medeiros, fa così:

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
 
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.
 
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.
 
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
 
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.
 
Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
 
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
 
Soltanto l'ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.
 
Un dolore come quello delle famiglie "pazienti" del dottor Jankovic io non l'ho mai vissuto, non l'ho mai conosciuto. Posso solo rispettarlo. E posso sperare di saper affrontare i miei dolori - i presenti, i futuri - senza dimenticare in un angolo la speranza. "E' dura parlare di speranza a un malato terminale", dice il dottore, "Eppure è possibile, è qualcosa che ha a che fare con la qualità della vita, anche a pochi passi dalla morte". Un altro dei suoi ragazzi, gli ha scritto proprio questo, prima di andar via: "Grazie per avermi dato la speranza". Lo scorso anno, proprio il 18 febbraio, andai a scegliere il mio abito da sposa con una mia amica, un'amica di quelle che vedi di rado ma che ti riempiono, un'amica super insomma. Lo trovai, fu grande gioia, gioiva anche lei, rideva con gli occhi. Oggi, le cose sono un po' diverse, la mia amica non ha più il suo adorato papà. E' un dolore che non conosco, vorrei che neanche lei lo conoscesse. Vorrei che nessuna ombra sia nel suo sguardo o sul suo cuore. Però le auguro che un giorno tutto questo le porti altro, forse una piccola ricchezza, come quella che il dottor Jankovic si porta nel taschino tutti i giorni.

giovedì 7 febbraio 2013

Io lavoro in un buco nero


Di quella canzone di Franco Battiato, Quand'ero giovane, mi colpiscono i versi che fanno : "la domenica di pomeriggio, in quelle balere, si divertivano a ballare operai e cameriere. Era passata un'altra settimana". Poi succede che, facendo pulizia nella cartella Documenti, trovo una cosa scritta - quasi - un secolo fa, che con quei versi un po' ci azzecca. Eccola.

Io lavoro in un buco nero. Il call center di una grande compagnia assicurativa, che però non è altro che un buco nero. No, non ci costringono a turni massacranti, non ci obbligano a vendere inutili apparecchi (se per apparecchi non si intendono i risparmi della gente), possiamo andare in bagno quante volte vogliamo e concederci tutte le pause sigaretta del mondo. Ma questa è solo un trucco da poco, un tranello come un altro. Io lavoro in un luogo che risucchia il tempo, le speranze, la vita di coloro che per qualche ragione vi si trovano cinque giorni su sette, da lunedì a venerdì . Il call center è una droga, non che l’ufficio amministrativo o la contabilità  non lo siano. Ti dici che puoi smettere quanto vuoi e invece no, perché ci paghi l'affitto. O il mutuo.

Una volta che ne hai varcato la soglia, basta appena strofinare il badge alla porta di ingresso come una lampada di Aladino abortita, ed ecco che il buco nero assorbe e inghiotte nella sua voragine tutto quello che ti porti appresso. Il venerdì sera sei libero di tornare in te, di uscire, ricordarti che hai degli interessi, una passione al di fuori del buco nero, vai al cinema, ti vedi con gli amici. Al sabato fai colazione in un caffè di qualche quartiere pullulante di vita, passeggi in un mercato rionale tra i banchi di frutta e verdura. Vedi colori, gusti profumi, anche quelli della bancarella del pesce, se ti piace. Al pomeriggio cambi zona, puoi pranzare in un posticino delizioso, scattare foto ad angoli della città che altrimenti non vedresti gli altri cinque giorni. La sera vai a cena da amici, bevi vini decenti, talvolta eccellenti, scelti apposta per quello speciale e caldo convivio, ti scambi opinioni sui giornali che hai letto al mattino in quel caffè.

Scene di alienazione quotidiana (o serale)
secondo Edward Hopper

E poi è domenica. Riprendi il romanzo che avevi accantonato, lo finisci, vuoi iniziarne un altro. Magari c'è un concerto, la musica ti commuove, come le fotografie o i quadri che hai visto a quella mostra, la scorsa settimana. Puoi anche andare a far visita alla tua famiglia, ai nipotini, anche alla suocera e sederti a tavola con i parenti del tuo fidanzato per una cena d'addio al weekend e poi finire a giocare a carte: ti fa piacere vincere, e anche se perdi in fondo non conta, che l'importante è stare bene. Colazioni, pranzi cene: ti riempi la pancia di emozioni e pensieri, perfino di qualche buon proposito. Il lunedì ti aspetta dietro l'angolo, e ti accorgi che è rimasto nascosto dietro l'angolo del weekend, che come la strega di Hansel e Gretel ti ha saziato di dolci e ti ha fatto incicciottire anima e corpo per divorarti meglio fino al venerdì successivo. Metti piede al lavoro, e lui come un blob ingolla tutto quello che hai vissuto, che hai pensato, che hai provato e promesso. I colleghi sono troppo presi dalle loro di esperienze, e sanno – come te - che entro pochi minuti dovranno ingozzarsi di una pietanza più amara, le richieste e le lamentele di chi chiamerà, sono concentrati su di loro, muoiono dalla voglia di raccontarti il loro fine settimana (e non ce n'è il tempo), o forse no. Gli è già passata. Sono già stati risucchiati dal buco nero e, chi per quattro, chi per cinque, chi per otto ore, resteranno macchine – non perfette, perfettibili. Non si apriranno, non in maniera autentica, non ascolteranno quello che hai da dire, quello hai da dare, non cercheranno di darti una chance per capire chi sei. Perché non conta. Sei lì, come loro, portato da una corrente, un po' per caso un po' per volontà, intrappolato anche tu, soggetto a un incantesimo anche tu, come loro. Perché dovresti essere diverso? Cosa sei tu di speciale?


Ph. Rodney Smith

E un po' vorresti andartene e un po' no. Perché il tuo darti da fare nel buco nero ti dà uno scopo, una missione per quattro, cinque o anche otto ore al giorno, da lunedì a venerdì. Fuori sei perduto. Fuori è tutto più difficile, più complicato, più freddo e duro. Il buco nero è caldo e ti ipnotizza con un messaggio appena percettibile: "Perché te ne dovresti andare?".

martedì 5 febbraio 2013

Se ognuno facesse il suo mestiere

Io, francamente, vado dicendolo da un pezzo questa cosa dell'etica, dell'etica del lavoro. Ogni tanto qualcuno mi ride in faccia e le motivazioni di tal reazione sono la disillusione, lo scoraggiamento e qualche volta anche quel pensiero rivelato più che da un sorrisino, da un vero e proprio ghigno che significa più o meno: ma-non-lo-sai-che-il-mondo-è-dei-furbi? E che vi devo dire, è che non fa per me. Forse è colpa di mia madre che mi ha tirato su alla vecchia maniera, con l'idea che esiste il giusto e lo sbagliato, che si devono fare le cose giuste e che si devono fare per bene. Sarà quel che sarà ma che vi devo dire io se credo che salvarsi (in questo paese) sia possibile se ciascuno facesse bene il proprio mestiere? Rischio di passare per populista o demagoga, a volte però è proprio per la paura di vedersi appiccicare addosso queste etichette che non si dice quel che si pensa, ci si autocensura.

Se siete delle persone a modo, saprete di cosa sto parlando e sono sicura avrete anche voi qualche piccolo o grande esempio di cosa NON sia etica del lavoro. Nel mio piccolo ho voglia di raccontare due banalissimi casi di persone che di fare (bene) il proprio mestiere... chissene. Due episodi accaduti qualche tempo fa che esprimono molto bene... lo spirito dei tempi, temo (e temo anche che il post Se ognuno facesse il suo mestiere avrà anche un seguito... o più d'uno).


Incendi che qualcuno prima o poi spegnerà. O no?

O’ professore

Nei giorni scorsi ne ho passate di ogni. In visita a un museo, mi imbatto in una scolaresca che ciarlava per le sale manco fosse per strada – fin qui niente di male, li ho avuti anch'io 16 anni – ad accompagnarli, un tronfio  professore che con nonchalance si accomoda in poltrona, davanti a una fotografia – senza vederla, immagino – e ride beato di riposare le chiappe mentre la combriccola strilla. "Questi ragazzi sono con lei?"- chiedo. Mi guarda come se venissi da Marte. "Dico, è lei il loro insegnante?". Quello mi guarda con aria sorpresa e fa, evasivo: "Sì, cioè… no, non sono tutti con me… alcuni sono col collega". Poiché del collega non c'è traccia, rispondo con lo zelo degno di una vecchina rompipalle: "Non potrebbe invitare i suoi studenti al silenzio? Siamo pur sempre in un museo!". Adesso che ci penso, avrei potuto aggiungere un bel "Diamine!" e tirargli un'ombrellata o una borsettata in testa, non fosse stato che ombrelli non ne avevo e le borse le tengo da conto. La scena fa certamente ridere, ma non mi leva l'indignazione, benché piuttosto bassa (sulla categoria "professori" immagino che il capitolo dedicato all'indignazione sia ben piùfornito). Epperò: ti pare, caro professore, che debba essere io a ricordarti di tenere a bada i tuoi allievi? Che risposta è ", cioè… no, non sono tutti con me… alcuni sono col collega"?
 
"Voglia di lavorare saltami addosso"
Altrimenti noto come Nonchalance
del grande John Singer Sargent
 
Personale da museo e da assessorato

Dopo la visita alla mostra passo in biglietteria a chiedere copia di un comunicato stampa. Il personale, impegnato a ridere, scherzare o mangiarsi una mela (davanti ai turisti giapponesi in fila per il biglietto), mi guarda inebetito e farfuglia che devo rivolgermi all'ufficio stampa dell'Assessorato alla Cultura (??!), che tanto sta proprio lì di fronte. Però, che efficienza! E va bene, andiamoci dall'Assessore. Alla reception, ecco una signora di mezza età che, tutta presa dalla rivista che sta sfogliando, non ha idea di dove trovare il comunicato in questione. Apre una porta per chiedere aiuto a qualcuno, intravedo tre o quattro impiegati che bevono il caffè. Uno di loro mi rincuora: "Vediamo se riesco a trovarlo sul mio pc, il comunicato". Sono sconfortata. Finisce che chiama al telefono la collega dell'ufficio stampa al momento fuori ufficio, la quale mi invita a scaricare il documento dal sito web. Cavoli, non ci avevo proprio pensato!

mercoledì 30 gennaio 2013

Gennaio, per favore vai via. Ma aspetta un po'

Gennaio sta finendo e mai più tornerà. E meno male! Il mese è stato piuttosto... intenso. Per me e per tanti amici che ad appena 30 giorni dall'inizio dell'anno invocano (o già prenotano) una vacanza a tutto relax. Eppure, non posso essere troppo avara con il vecchio gennaio, mi ha portato un mucchio di cosine interessanti.

Lasciando perdere nobili intenti e massimi sistemi, i prosaici saldi mi hanno portato molto di buono, tanto per cominciare. Un morbido cardigan di lana bianca, un avvolgente maglione bordeaux e una camicia da boscaiolo che ha il suo perché. Mai avrei potuto prevedere l'acquisto di un gilet di pelo di... nutria, credo, eppure è accaduto. Cosa non si fa per una festa a tema Flower Power...

La scenografia essenziale di "Roméo et Juliette"
firmata da Pia Maier Schriever, Thomas Schenk e Sasha Waltz


Per il sollazzo dell'anima bella che c'è in me, mi sono concessa uno spettacolo alla Scala con il balletto non convenzionale Roméo et Juliette, con le musiche di Berlioz. Non proprio immediato ma di impatto, come la scenografia, composta solo da due parallelepipedi sovrapposti su piani
sfalsati. Incredibile l'interazione tra i ballerini e questo elemento fisso ma mobile: a metà spettacolo i sdoppia e crea una perfetta parete, dove un Roméo disperato si inerpica con forza ed eleganza, dove le ombre sinuose di Juliette di allungano e si moltiplicano. E dire che di primo acchito una scenografia così scarna mi aveva fatto temere... Roméo et Juliette ha ormai lasciato da tempo Milano, ma se mai vi capitasse di recuperarlo, beh, ne vale la pena.

Il capitolo "romanzi dell'anno" si è aperto per niente male e, anzi, prevedo che le prossime letture dle 2013 potranno difficilmente sostenere il livello di quelle di gennaio. Ho cominciato con un classico di Truman Capote che non avevo mai letto, Colazione da Tiffany, poi è toccato a Philip Roth e al suo ultimo romanzo (ultimo proprio perché ha detto di non volerne scrivere più, ma va a sapere se riuscirà a trattenersi), Nemesi. Grazie al cielo la poliomelite in Europa è stata debellata, già iniziavo ad avvertirmi ipocondricamente i sintomi... Ora ho appena iniziato Miele di Ian McEwan, speriamo, intanto l'intervista di Antonio D'Orrico uscita sul primo numero di Sette dello scorso novembre lascia ben sperare (peccato che la detta intervista non sia disponibile online).

Aspettando il Nobel... Philip Roth

Ho assistito alla fortunata prima di Django unchained, The Master (era ancora dicembre però...), Les Misèrables, del delizioso Quartet, dell'indipendente Re della Terra Selvaggia, ho recuperato - grazie al cineforum, ça va sans dire - Argo, che secondo me - qui lo dico e qui lo dico - è un pochinino overrated, e Monsieur Lazhar. Insomma, mi guardo alle spalle e vedo un mese denso e fitto, impegnativo tanto da lasciare un (bel) po' in disparte il mio blog, ma pieno di esperienze con cui avrei potuto riempire una dozzina di post. Zero lamentele, tanta soddisfazione.

martedì 15 gennaio 2013

Credi nel 2013?

A 2013 ormai inoltrato, mi sovviene un'espressione che girava - un po' sui social, un po' sulla bocca di qualcuno - un'allitterazione:  "Duemila e... credici". Ma credere a che cosa?

Della serie "non è vero ma ci credo", credo appunto - o voglio credere - un pochino negli oroscopi, specie quando, per una volta, pare che il 2013 sia l'anno del mio segno zodiacale, Cancro (brutta cosa essere del Cancro, nata di Lunedì poi, e con ascendente in Vergine...). Lo dice Brezsny, lo dice Marco Pesatori, lo dice Paolo Fox, lo dice Branko: qualcuno avrà pur ragione, diamine. Nei loro vaticini parlano di emozioni da ricordare, di traguardi, di serenità. Che male c'è a crederci un po'?

Reminiscenze di anni giovanili portano a galla versi di cantautori pop rock che van dicendo "Credo che ci voglia un dio ed anche un bar" e mi sa che han ragione, o almeno è quello che penso, specie quando esco da quel posto di lavoro che un po' mi aliena e un po' mi appaga da 33 mesi ormai. Lo stesso cantautore prosegue sostenendo "credo a quel tale che dice in giro che l'amore porta amore". Vecchia storia, questa, ma sempre attuale, finché - appunto ci si crede. E si deve crederci. E fu così che la scritta LOVE, in ogni forma e sostanza, mi attira ultimamente come una mosca al miele: su giornali, sui muri, sulle t-shirt e perfino sulle bustine di zucchero. Perché desidero che sia un mantra, un comandamento, un invito, un ammonimento, un regalo. E perché in fondo le risposte che hanno più senso arrivano tutte da quel territorio lì.



Te lo dicono anche le bustine di zucchero...

Pazienza se vi risulta stucchevole, ma se così vi pare, allora vi dimostro un po' di (affettuosa) ironia: appena l'ho letto, l'ho subito condiviso su Facebook. Uno dei necrologi di Mariangela Melato pubblicato da Spinoza.it: "È morta Mariangela Melato. O sta recitando da Dio". E la notizia di questa morte mi ha toccato in quel modo strano, tipico di quando se ne va qualcuno che hai amato (aridaje) senza averci mai bevuto nemmeno un caffè insieme. Come è avvenuto con la Rita Levi Montalcini a fine 2012, solo che per lei, ultracentenaria, ce lo aspettavamo tutti di più, anche se fa male nella stessa misura. E allora credo un po' di più nelle persone: anche se, per trovare una Melato, o una Montalcini, o anche una soltanto fra le mie grandi amiche (per dirvi la mia fortuna), la ricerca è lunga e ricca di incontri poco memorabili o molto indesiderati.

Aspettando il giorno in cui... Ho fatto 13!
 
 
Ma il 13 porta sfortuna o no? Dopo un 2012 bisestile e foriero di funeste profezie, la domanda appare quanto mai superflua. In ogni caso, wikipedia lo presenta come "numero fortunato". E io, manco a dirlo, ci credo.