mercoledì 28 novembre 2012

Tutte le strade portano a Hitchcock

Nel mezzo del nostro fare-cose-vedere-gente, capita spesso di imbattersi più volte negli stessi soggetti, o libri, canzoni, grafiche, nomi, numeri. Elementi che punteggiano la nostra esistenza anche quando si ha a che fare con attività o situazioni che esulano completamente dalla categoria d'appartenenza dell'elemento ricorrente in questione. Ciò ci porta a credere (mi porta a credere) nell'esistenza di una rete di sottili fili (nella mia mente li immagino rossi e di lana) intrecciata proprio sotto tutto ciò che succede mentre sei impegnato a fare altri programmi. Vista dalla giusta prospettiva, questa non è solo una rete, ma una sorta di disegno/immagine/mappa che chissà /magari/un giorno, permetterà di scoprire come interpretare la propria esistenza. Un codice col quale decriptare il significato della nostra presenza a questo mondo. Trattasi del lasciarsi ammaliare dal fascino delle coincidenze per non arrendersi alla totale mancanza di senso della vita e alla supremazia del Caos? Non lo escludo. Evviva! direte voi. E invece tutto questo preambolo filosofico - l'ennesima pippa mentale... - serve per comunicarvi che... Alfred Hitchcock mi perseguita, o almeno l'ha fatto negli ultimi giorni (un sano estica##i è quanto meno concesso).

Sir Alfred Hitchcock qui rappresentato con un pizzico di
inquietudine aggiuntiva (nel caso in cui ce ne fosse bisogno)
Sarà colpa dell'uscita di un film sulla vita del Maestro nelle sale americane, intitolato nientepopodimenoche: Hitchcock? Non credo che il potere delle major sia ormai tale da condizionare a tal punto la mente umana, pur di promuovere una biopic a tre mesi di anticipo dall'uscita del film medesimo (in Italia, almeno, dove è atteso per il 23 febbraio). Tutto inizia durante la conferenza stampa di presentazione della mostra su Dracula alla Triennale di Milano. Prende la parola uno dei curatori, il cinemaniaco Gianni Canova, che cita la battuta di un film:

"Non esiste una coppia di vampiri più rapace di noi"

A pronunciarla è Grace Kelly a James Stewart ne La finestra sul cortile. Perché, caso vuole, nel suo corso di quest'anno, Canova insegna Hitchcock e ne mostra ai suoi studenti i film, e proprio non si ricordava di questa frase di Grace Kelly che tanto bene mette in luce le analogie tra spettatori (della vita, di film? Di tutti e due) e vampiri(smo). Alchè non posso fare a meno di pensare che Hitchcock l'ho studiato pure io nel corso di Teoria-e-analisi-del-linguaggio-cinematografico (da leggere tutto d'un fiato), da me seguito nei tempi andati dell'Università (Statale), tenuto dalla tenace prof. Dagrada. Probabilmente Hitchcock lo insegnano in qualunque corso di cinema, ogni anno, ogni ora. Per carità, per quel che ne so, è come l'alfabeto per chi ha intenzione di imparare a leggere o a scrivere. E se non lo capite, leggete il libro-intervista (tutto d'un fiato, anche questo) scritto da François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock.

Simpatico trio con tecnico luci:
Hitch, Jimmy Stewart e la mitica Grace sul set de
"La finestra sul cortile"
 Ancora. Ho visto di recente un film molto molto... grazioso (mi sembra l'aggettivo più calzante), ve ne parlerò ma non ora. A colpirmi è - anche stavolta, dopo quest'altra intendo - il lavoro della costume designer. Così indago, cerco il suo c.v., scopro che ha fatto poco altro, nessun altro lavoro su grandi set cinematografici. Però è suo lo styling di un servizio fotografico su Vice Magazine con protagonista Miranda July in abiti e ambientazioni ispirati al cinema. Il servizio mette a confronto l'immagine di un film e quella di un outfit. Primo film: Kramer vs Kramer. Secondo film: VertigoLa donna che visse due volte insomma.

Ancora. Domenica passo in centro e infilo la testa e il portafogli alla Rizzoli, in Galleria. Un microscopico angolo è riservato a libri superscontati: perché non li compra nessuno o perché hanno la copertina troppo rovinata per essere venduti a prezzo pieno. Una tristezza, insomma. Sembra di stare al canile dell'editoria libraria. Bam!: Alfred Hitchcock. Tutti i film. Di Paul Duncan, Edizioni Taschen, prezzo di copertina: 14,99 Euro. Su Amazon si trova a poco più di otto, su Ibs a poco meno di sette. Io mi accontento di avere lo sguardo terrorizzato di Tippi Hedren ne Gli uccelli sulla mia libreria per cinque Euro.


Una cover terrorifica (Hitchcock d.o.c.) occhieggia nel mio salotto
Per ora benvenuto Alfie. E chissà se imperverserai ancora col tuo panciuto profilo nei miei giorni venturi. Per i miei sogni tranquilli spero di no, per la gioia dei miei occhi di cinefila in erba spero di sì. In attesa di capire che spazio hai nella rete rossa e lanuta che dà un senso a questo caotico bla-bla-bla che è la mia vita.

giovedì 22 novembre 2012

Perché leggere mi salverà la vita

Bene. L'altra notte me ne stavo a letto, con la lampada accesa, pronta a iniziare la lettura di Una certa idea del mondo, il libriccino di Baricco uscito con Repubblica, quando mi parte una pippa, così, involontaria. La pippa mentale delle due di notte. Penso che io, in fondo, non so fare nulla. Mi spiego: so leggere libri, riviste, so guardare film, so studiare, so ascoltare (credo). Potrei anche sostituire i verbi delle frasi precedenti con il predicato "amare", il risultato non cambierebbe: le mie competenze e le mia passioni si limitano a quelle cose lì, libri e film. Poi mi sono chiesta: possibile concretizzare queste attitudini in un mestiere? Mi faccio la stessa domanda da quando avevo 17 anni, ho passato i trenta e ancora non ho risposte.



Invidio quelli che sono divorati da una passione per i capelli, per la cucina, per la chimica, per il make up, per la fotografia e che possono dire con certezza di voler diventare parrucchieri/cuochi/chimici/truccatori/fotografi e così via. Almeno hanno un campo di azione definito, definito dalla loro tecnica, penso. Mi rendo conto che questa riflessione delle due di notte ha mille falle, ma è una pippa mentale e in quanto tale prosegue inarrestabile su binari precisi, richierebbe di andare avanti a oltranza, diretta verso zone depresse che neanche la Death Valley. Perciò la chiudo e lo faccio aprendo finalmente Baricco. La lettura procede che è una meraviglia, tanto che, un paio di giorni dopo, eccomi ancora in compagnia sua e - stavolta - della sua opinione su Vergogna di J.M. Coetzee. E mi trovo a leggere Baricco che scrive inaspettatamente della mia pippa mentale di un paio di sere fa, così:

Che si tratti di reagire a un'aggressione feroce, o di curare un cane malato,
il professore (parla del protagonista del romanzo di Coetzee...), con tutta la sua cultura, si trova ad essere costantemente inadeguato, inutile, vergognosamente non attrezzato. È un fenomeno che conosco.
A me basta andare ad affittare un gommone, o andare a comprare la fontina in un alpeggio per trovarmi davanti a persone che detengono un sapere raffinatissimo, di fronte al quale posso solo contrapporre un'ignoranza umiliante.
D'improvviso, a saper vivere, sono loro. Sanno come avvolgere una cima, che tempo farà domani, i nomi degli alberi, le dinamiche dei venti, come vestirsi, dove sedersi e dove no, come non farsi male. Sono elementari, primitivi, spesso non hanno mai aperto un libro, eppure dopo un po' non riesci a cacciare questa rovinosa sensazione che sappiano stare al mondo meglio di te, forse perfino educare i figli, al limite abitare la loro anima sovradimensionata. È intollerabile. E io, con tutti i libri che ho letto?

Possibile che debba stare lì come un fesso a farmi insegnare a vivere?
È in quei momenti che io, come il professore di Coetzee, finisco per chiedermi:
ma cosa so fare, io? Con tutto quello che ho studiato e fatto, cosa so fare io, veramente?

Cosa sanno fare gli intellettuali?

Io ad esempio, so leggere l'Infinito di Leopardi. Voglio dire che so leggerlo bene, so da dove viene quella bellezza, so trovare il suono giusto per ogni parola, so perché è fatto in quel modo, ne conosco la musica perfettamente e so con precisione cosa pronuncia e racconta. Ci ho messo anni, ho lavorato duro, e ora lo so leggere bene. Adesso la domanda è? A cosa serve? Serve a qualcosa? Non sarebbe stato meglio studiare i venti e il nome degli alberi?

 
I grassetti sono miei, quelli lì sono i miei interrogativi, formulati alla grande dallo scrittore. In tutto ciò, non posso fare a meno di provare una goduria inesprimibile scatenata non dalla soluzione alla mia pippa mentale (qui ampiamente condivisa). L'immenso piacere è leggere. Dei poster realizzati da Einaudi qualche anno fa, quelli con le citazioni di grandi autori sulla lettura (ne trovate un po' qui), ne avevo in camera due , uno con una frase di Salinger e l'altro che citava Pavese, così:

Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra -che già viviamo- e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.
 
Cercavo le immagini di quei poster e mi sono imbattuta invece in un'altra citazione, che in poche righe dice tutto e meglio (del resto le ha scritte Flaubert):
 
Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi,
o, come fanno gli ambiziosi, per istruirvi.
No, leggete per vivere

Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici,
ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi,
mio malgrado, vedo venire "Memorie di Adriano"

[Grassetti miei, sì] Già il fatto che scriva vivere e non sopravvivere mi sembra incoraggiante. E mi incoraggia il finale del mini-saggio di Baricco su Coetzee, che (dopo essersi chiesto a che cosa serva sapere anzichè saper fare) ammicca: "Fra una settimana parlerò di un libro di Christa Wolf. E lì, ad esempio c’è una risposta. Una delle migliori che io abbia da parte". Dopo queste parole, ho chiuso Una certa idea di mondo. Perché ero soddisfatta, perché volevo arrivare a Christa Wolf lucida e fresca. Perché spero tanto che questo libriccino comprato a due Euro insieme a un quotidiano non mi deluda proprio adesso, per la prima volta.

lunedì 12 novembre 2012

Well, It has to be optimistic...

Ok, sono tempi grami, lo sappiamo, non c'è mica bisogno che vi spieghi il perché. A ciascuno il suo. In quello che NON è il fondo - ci mancherebbe, per quello c'è sempre tempo... e con questo sono già un po' ottimista, non credete? - mi vien voglia di mettere nero su bianco il breve elenco di "cose per cui vale la pena vivere",  un po' come faceva Woody sul finire di Manhattan (originale, eh?), che iniziava il suo con un incoraggiante "Devo essere ottimista". Riflettendoci qua e là, nelle parentesi dalle gran rotture di scatole che costituiscono poi un buon 70 (80?)% della nostra vita, la scorsa settimana mi è balenato il piccolo inventario che segue, nato da esperienza vissute proprio nei giorni scorsi. L'elenco è stato parzialmente appuntato in una notte di insonnia - e lasciamo stare le idee geniali (o presunte tali) che NON mi appunto per pigrizia, nelle notti di insonnia o in pieno giorno. Beh, insomma, queste sono scampate sane e salve alla mia ignavia.



Dopo un viaggio (di nozze) in Sudafrica e Zimbabwe (ricchissimo di cose per cui vale la pena vivere), io e il gentil consorte decidiamo finalmente di guardare La mia Africa, il cui dvd ci guardava speranzoso dal comò dal mese di agosto, più o meno. Pensavo fosse un polpettone, invece... manco per niente. Elementi per cui vale la pena...ecceteraeccetera del film:

La mia Africa è un film del 1985.
Qui, una fotografia di Douglas Kirkland
L'incantevole eleganza di Meryl Streep, in abiti di scena di Milena Canonero, e quella rude di Robert Redford; la fotografia spettacolare del film tutto. Risultato: voglia di leggere Karen Blixen (e di partire per Kenya, Namibia, Tanzania, Botswana...).

Un'immagine dal volo in aeroplano
dei due protagonisti de "La mia Africa"

C'è un brano che riesce a regalarmi sempre il buon umore (e, volendo fare gli intellettuali, un po' di quella Leggerezza di cui parla Calvino nelle Lezioni Americane): Let's call the whole thing off, nella versione cantata da Ella Fitzgerald e da Louis Armstrong



Per la mia rubrica radiofonica dedicata ad arte e design mi sono preparata due chicche da segnalare, un vaso/candeliere di Luca Nichetto e una lampada di Foscarini. Entrambe sono state ispirate dalle bambole kokeshi, tipiche della tradizione nipponica. Nichetto realizza il suo prodotto pensando un po' a queste bambole, un po' all'arte vetraria del maestro del design finlandese Timo Sarpaneva e chiama la sua collezione di vetri Les Poupées. Foscarini battezza la sua nuova linea di lampade da tavolo... Dolls. Che dire? Viva le bambole kokeshi (che, si dice, abbiano ispirato pure le matrioska)!

Esemplari di "japponissime" Kokeshi dolls

L'esperienza fanciullesca all'Hangar Bicocca, dove - dopo aver atteso per tre ore - io e Stefano (il gentil consorte) abbiamo sperimentato il PVC dell'installazione di Tomás Saraceno On space time foam. Al termine dell'esperienza - consistita nel gattonamento su una superficie di PVC appunto, sospesa a svariati metri di altezza, fino quasi a toccare il soffitto dell'Hangar, e gonfiata da getti d'aria che la rende semisferica, per un tempo complessivo di 15' - abbiamo constatato: a) di non avere più il fisico; b) che l'arte contemporanea non deve necessariamente dire qualcosa; c) che è molto più difficile da spiegare, la suddetta arte contemporanea, la devi provare. E in ogni caso, che bello il nuovo Hangar, con la sua sala lettura, pienissima di libri e riviste che non trovi altrove, il suo bistrot, e tutto il resto...

Pioggia all'esterno dell'Hangar Bicocca.
Sullo sfondo, l'installazione di Fausto Melotti, "La sequenza"

Uno dei libriccini da sfogliare all'Hangar...

Visitatori "trafitti da un raggio di luce"
davanti a "Unidisplay", dell'artista Carsten Nicolai


E poi, tanto per mescolare il raffinato al popolare... andammo a vedere il nuovo 007, e rimasi fulminata dal film tutto, ma in particolare da:

La vecchia M. alla presentazione del nuovo Bond,
con tanto di argenteo tattoo sul collo. Che figa! 

L'elegantissima ragnatela di rughe sul bel viso di Judi Dench in 007 - Skyfall, nonché dalla brughiera che fa da sfondo al finale del sopra citato 007.

"007 Skyfall": lui, lei e la brughiera
(per non parlare della Aston Martin lì dietro)

E poi il venerdì si va al Cineforum di Bareggio, che ci ha appena proposto i paesaggi e la poesia abbagliante del film di Peter Weir The way back. 


Una scena dal film "The way back", del 2010. Poco pubblicizzato e poco diffuso in sala... da recuperare.




giovedì 8 novembre 2012

Fenomenologia della proiezione stampa / 2. Pop corn (gratis) e simpatico umorismo

Ho presenziato alla prima di The Grey, con Liam Neeson. Uno di quei film che ti fanno chiedere per quale ragione un attore di sessant'anni e un certo trascorso abbia avuto anche solo l'intenzione di parteciparvi (oddio, nella passata filmografia di Liam Neeson c'è stato pure di peggio...). Trattavasi di proiezione aperta a stampa nonché a una selezione (eseguita attraverso un non meglio precisato criterio) di invitati: e qui suona un campanello d'allarme. All'ingresso vengono elargiti, per il sollazzo dei partecipanti di cui sopra, bibite e pop corn gratis. E qui parte una sirena, forte e chiara: allerta la popolazione cinefila in sala (fors'anche cinofila, visto il tema del film di seguito esposto) che la proiezione sarà accompagnata da rumore molesto. Quello di 200 mandibole che divorano in sincrono palettate di chicchi di mais saltato. Colonna sonora di pessimo gusto, se vogliamo specificare che il film in questione narra di un gruppetto di sciagurati operai di pozzi petroliferi ("Avanzo di galera" è la voce più frequente tra i loro c.v.) che, sopravvissuto a un incidente aereo in Alaska (mica in estate, chiaro), diventa l'happy-hour di un branco di lupi affamati e incazzatissimi.


Pop corn molesti

Pop corn gratis.
E duecento mandibole sgranocchieranno in sync

Suvvia, su due ore di pellicola, i pop corn occupano lo spazio di dieci minuti dopodiché filmici ululati e grida di terrore (dei protagonisti, non del pubblico) hanno la meglio. Non vi svelerò le sorti di Liam Neeson e dei suoi sventurati compagni di brigata, ma vi riporto quanto raccomandato dal press office prima delle visione del film: "Il vero finale arriva dopo i titoli di coda, non andatevene prima!". Titoli di coda della durata di sei minuti. Attendo fiduciosa. Attendo insieme a una sala gremita, il cui appetito è stato solleticato dai pop corn gratis e dal sangue versato a fiumi sullo schermo. Attendo, attendiamo insieme... il vero finale consta di 15 secondi e lascio a voi la scelta di aspettare o meno quei sei minuti infiniti. Vi dico solo che a proiezione finita-finita, un collega ha commentato: "Tutto 'sto casino per girare un film ambientato in culo ai lupi...". Chapeau!       

lunedì 5 novembre 2012

Chance & Change

Avete mai riflettuto sulla parola francese chance? Può indicare sia una possibilità, sia un'occasione. È estremamente vicina alla parola change, che vuol dire - tanto in francese quanto in inglese - cambiamento. E lo sa bene Obama, che nel 2007 (sì, sembra lontanissimo) ha trasformato Change in uno slogan elettorale, un auspicio, un imperativo. E lo sa anche il suo avversario Mitt Romney, che nell'ormai conclusa campagna elettorale 2012, si è affidato - tra gli altri - al claim Real Change day by day. Più che in ogni altra, proprio nella cultura americana è inculcata l'idea, la potenza del cambiamento, della second chance. Decine di film e libri a stelle e strisce ci comunicano il diritto di qualunque essere umano ad avere una seconda opportunità, per cambiare, per dimostrare al mondo il proprio valore, per rinascere qui, nella vita reale, in attesa di una eventuale resurrezione in una vita altra.



Nel mondo anglosassone cambiare non è peccato, non si nasce camerieri o impiegati per morire tali. Ma questo non è un post a sostegno della tesi montiana per cui il-posto-fisso-in-azienda-è-noioso. È un post che parla di possibilità (chance) concrete, non di sogni a occhi aperti, né di improvvisi, incontrollati impeti a mollare, via, verso un non si sa quale miglior destino. In questi mesi ho sentito caterve di persone intenzionate a lasciare il proprio posto di lavoro per logoramento, ipotizzare business alternativi, ardire a svolte che non giungono mai. Qualcuno, talmente allo stremo, ha preferito il sussidio di disoccupazione anziché accettare l'ennesimo rinnovo contrattuale per un impiego odiatissimo, altri quel rinnovo non l'hanno manco visto e si ritrovano dall'oggi al domani costretti a fare i conti con il fatidico change. Nella cultura italiana la second chance non ha troppa libera cittadinanza e sto parlando (anche) della "pluriennale esperienza nel settore" spesso richiesta dal mercato del lavoro, ma anche di una predisposizione personale al cambiamento di ciascuno di noi.

Poi una sera mi è capitato di sentir parlare di Accademia Felicità. Che nome pretenzioso, ho pensato. E invece è un nome adatto per un'idea coraggiosa e intelligente. Il nome corretto è AccademiA Felicità, con due maiuscole, una all'inizio e una alla fine. Direi che si tratta di una piccola società che si rivolge a coloro che intendono cambiare vita o prendere in mano la propria, dandole un'impronta nuova e fresca, più vicina ai propri desideri. Quello che fa l'AccademiA potrebbe essere molto aleatorio, se non contemplasse una forte dimensione progettuale: chi si mette nella mani di Francesca e Marco - i due fondatori - deve aprirsi come un libro, svelando capacità, ambizioni e angosce, ingredienti necessar per avviarsi lungo le tappe del cambiamento.

Francesca e Marco si sono occupati a lungo di personal e business coaching per grandi aziende, poi hanno preso una strada differente, hanno guardato all'esempio della londinese School of Life  e hanno avviato la loro AccademiA Felicità. Funziona? Bisognerebbe chiederlo ad Alessandro, uno chef che con l'intenzione di arricchire il suo curriculum con esperienze che non contemplino le cucine di grandi ristoranti ha incontrato l'Accademia. Risultato: si trasforma in chef a domicilio, inizia a mescolare ricette e musica rock, il passato londinese al presente italiano, e - chissà - quasi quasi tutto questo finirà in un libro.

Non so quale futuro attenderà l'Accademia o Andrea, spero che le idee di cambiamento e di second chance diventino nostre, e che un giorno (molto vicino) certe parole possano esserci molto familiari, come quelle che si leggono nel libro di Mario Calabresi, La fortuna non esiste. Parole come queste del poeta (e diplomatico) Paul Claudel:

Nel temperamento americano c’è una qualità, chiamata resiliency, che abbraccia i concetti di elasticità, di rimbalzo, di risorsa e di buon umore. Una ragazza perde il patrimonio, senza stare a commiserarsi si metterà a lavare i piatti e a fabbricare cappelli. Uno studente non si sentirà svilito lavorando qualche ora al giorno in un garage o in un caffè. Ho visitato l’America alla fine della presidenza Hoover, in una delle ore più tragiche della sua storia, quando tutte le banche avevano chiuso i battenti e la vita economica era ferma. L’angoscia stringeva i cuori, ma l’allegria e la fiducia splendevano nei volti di tutti. Ad ascoltare le frasi che si scambiavano si sarebbe detto che era tutto un enorme scherzo. E se qualche finanziere si gettava dalla finestra, non posso impedirmi di pensare che lo facesse nella ingannevole speranza di rimbalzare.

giovedì 1 novembre 2012

Io, tè e un buon libro / 3

L'ho comprato prima di andare dal parrucchiere, per ingannare l'attesa prima del mio turno al lavatesta. Niente di impegnativo, insomma, solo della autobiografia di Diana Vreeland. Inaspettata, mi guardava dalla vetrina della libreria, quando l'ho richiesta alla del negozio, mi sono sentita rispondere: "Diana chi?". Vabbè.


Una giovane Diana Dalziel...
Direttrice di Vogue e Harper's Bazaar nei loro anni più snob, nonché Special Consultant per il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York dagli anni '70 fino alla morte o quasi, D.V. è stata voce indiscussa della Moda nel Novecento, signora di stile, padrona di un'eleganza eccentrica, ultraricercata e altezzosa come solo poche, oggi. Una donna da invidiare? Ricca, per molto tempo non mosse un dito per guadagnarsi da vivere, agiata e viziata, nella mia mente è quanto di più vicino a una nobildonna del XVIII secolo: una così non è forse un essere odioso? E dunque?


Diana Vreeland al lavoro
Matite ben temperate, tratti spigolosi e carattere deciso

Nella sua autobiografia, il racconto raccolto da un paio di giornalisti e narrato da D.V. in prima persona (ovvio) saltando qua e là cavalcando i ricordi, si presenta subito come una donna d'altri tempi, cresciuta quando l'Inghilterra era ancora un Impero, e l'unico aggettivo da accostare al termine disciplina era "ferrea". Come ogni donna di carattere, non nasconde una certa mitomania: gli episodi che punteggiano la sua vita mai noiosa sono un tantinino... gonfiati. Del resto, tra i primi ricordi che toccano al lettore ci sono quelli dell'infanzia a Parigi, con le gite del mercoledì al Louvre e qui la memoria gioca brutti scherzi, o cerca sensazionalismi futili ma di spirito: a un certo punto D.V. racconta di essere stata, insieme alla sorella e alla tata, l'ultima persona ad aver visto la Gioconda prima che venisse rubata. Peccato che il furto della Monna Lisa avvenne nella notte tra la domenica e un lunedì dell'agosto 1911, che c'entra il mercoledì? Ma sulle panzane, D.V. ha le sue opinioni, come si legge nel capitolo XXV:

Proprio l'altro giorno mio nipote se n'è uscito così: "Ti sento dire un mucchio di bugie. Ad esempio, la scorsa settimana, due settimane fa... non importa quando lo fai... racconti sempre le storie più assurde!".
Ora, so di
esagerare... sempre. E naturalmente sono un disastro a raccontare i fatti. Ma una bella storia... alcuni dettagli... fanno parte della mia immaginazione. Non lo chiamo mentire.
 
[...]

"Conosci parecchi bugiardi" [...]
"Oh, non li definisco bugiardi", risposi. "Piuttosto li definisco romantici".
 
[...]
 
Un conto è dire una bugia per tirarsi fuori da una situazione o trarre vantaggio per sé; un altro, è mentire per rendere la vita più interessante. Sono due cose ben diverse.


D.V. fa subito simpatia: per quanto frivola, dimostra carattere, acutezza, una cultura immensa, una dose di coraggio, un po' di spavalderia e una naturale dote nel riconoscere il bello. Che male c'è ad impiegare una vita dietro a ciò che normalmente consideriamo futile, se ci mettiamo passione, studio, amore, se mettiamo questo futile dentro a un progetto non smette forse di essere futile?

Con il marito, Reed Vreeland.
E con un'amabile borsina maculata

Non c'è da stupirsi del successo che ha avuto questa donna. Frivola, ma mai vanesia, affascinata dagli oggetti, attratta (ossessionata?) dai (bei) vestiti, eppure saggia, e non c'è modo per spiegare meglio la saggezza di questa donna - un po' innata, molto guadagnata - dovete leggere il libro (D.V., Donzelli Editore, 18 Euro). Che, tra l'altro, non ho neppure cominciato dal parrucchiere, e meno male: D.V. merita un tempo più prezioso che non quei dieci minuti di attesa tra phon e piastre.

P.S. Quasi mi dimenticavo il ! E dire che nella bio Diane lo dice chiaramente: "Il tè è molto importante... non c'è nulla di più sano del tè!". Con questo libro ci vorrebbe del tè oolong, un Wu Yi, dal colore ambrato tendente al rosso, e con un gusto robusto ma morbido.