Stamattina, per ben due volte, anche noi milanesi abbiamo tremato. Forte. È inutile ripetere quello che è successo: le scosse sismiche che hanno colpito Modena e l'Emilia, i morti, la distruzione, il dolore. Tutti ormai sanno. Perché l'hanno vissuto questo terremoto, o perché l'hanno visto in tv o hanno letto gli aggiornamenti di status degli amici su Facebook o Twitter. Al lavoro ci sono state prima le canoniche evacuazioni dagli uffici (mal condotte, anche questo come da copione, ma vabbè), poi tutti si sono attaccati a internet per sapere di più, sui mezzi pubblici la gente parlava attaccata ai telefoni: "E tu l’hai sentito? E dov’eri? E che stavi facendo?". Un tamtam più che legittimo, umano. Mi sono chiesta che cos'è che ci ammalia del terremoto, che ci attira e ci fa sentire come dentro a stanza impregnata da un aroma intenso, nauseante eppur magnetico. Certo, c'è la potenza del richiamo della terra, e la minuscola è proprio d’obbligo, perché parliamo della cosa più scontata che c'è: la terra sotto i piedi. Che ruggisce e noi, spaventati, lì ad ascoltarla. Spaventati e attratti. Da dove vengono queste sensazioni? E perché appena arriva una scossa stiamo lì a scrivere su Facebook Terremoto!, Stavolta è bella forte, trema tutto! quando, insomma, è evidente che sta tremando tutto (nessun biasimo tra le righe, anch'io ho scritto queste cose stamattina)? Cos'è questa voglia che ci piglia di twittare a tutto spiano, di cercare immagini e racconti online, ascoltare le testimonianze in tv? L'accanimento al dramma ha a che vedere con quel vecchio affare della Tragedia, della catarsi, mi sono detta. E poi ho cercato di approfondire.
E cercando qua e là grazie al web, ho trovato un saggio sulla tragedia classica che cita Sartre e Freud. Aristotele ci dice che "la narrazione (della Tragedia intende) per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione (katharsis) di siffatte emozioni". Ora: il terremoto è reale, la Tragedia è la sua narrazione, fatta dalla tv per esempio, in attesa che venga creato un film o che gli eventi finiscano in un libro o dentro a un articolo. La Tragedia del terremoto è anche quella scritta dal popolo dei social network, credo.
Pietà e paura. Leggo il parere condivisibile di I.A. Richards: "La catarsi tragica nasce da una opposizione: la Pietà, cioè l’impulso a partecipare, e il Terrore, ovvero l’impulso ad allontanarsi, trovano nella tragedia una conciliazione che non è loro altrimenti consentita”. Paura e pietà trovano sfogo su Facebook, ed è naturale condividere questi sentimenti realmente o virtualmente, proprio per compiere la nostra personale catarsi. Ma voglio tornare ancora proprio alla parola catarsi usata da Aristotele. Oggi non se ne coglie ancora il pieno significato, gli studiosi si soffermano ancora sulle sue sfumature. Leggo che la catarsi ha la funzione di illuminare, di chiarire, di comprendere ciò che agita i nostri animi. Il suo fine ultimo è liberare l'uomo dalla furia cieca delle passioni permettendogli di agire con lucidità, di passare ai provvedimenti ecco. Sartre crede che pietà e terrore stimolino lo spettatore della Tragedia a prendere "decisioni sociali significative, che vanno dalla solidarietà individuale alla rivoluzione". Hai detto niente? Per Sartre la catarsi è composta da due fasi: "la purificazione immediata o personale e la purificazione sociale". E questo è il punto. Siamo sicuri che assistere alla Tragedia permetta ancora oggi una purificazione sociale, una rivoluzione, addirittura?Non è che in fondo ci crogioliamo nella pietà e nel terrore finché non mettiamo in atto la nostra purificazione personale e poi, quando si tratta di purificazione sociale, ci fermiamo? Si può interpretare la richiesta collettiva degli utenti di Facebook di dirottare i fondi della parata militare del 2 giugno alle zone terremotate come una decisione sociale significativa?
La Tragedia dell'Abruzzo – solo per citare l'evento sismico più vicino in ordine di tempo – avrebbe dovuto innescare una serie di disposizioni per tutelare persone e patrimoni. Che misure adottano oggi i nostri comuni, le amministrazioni dei paesi in cui viviamo ogni giorno, contro i pericoli delle scosse telluriche? C’è un censimento degli edifici più a rischio? Ci sono dei controlli sulle scuole, sugli stabilimenti industriali, sulle strutture destinate ad accogliere un grande numero di persone? Sono domande un po’ polemiche e un po’ spontanee: io, da cittadino qualunque, mi faccio queste seghe mentali e posso pensare che forse stia esagerando, ma poi in tv gli esperti scuotono la testa e si domandano - proprio come me – come sia possibile che dopo L'Aquila si rivedano certi tristi scenari. Allora, forse non penso poi tanto male. Purtroppo.
Quanti Duomi di Mirandola devono venire giù, quanti operai devono lasciare la pelle in un capannone per un terremoto (tornato, spudoratamente, sul luogo del delitto a cadavere ancora caldo, a nove giorni di distanza da un precedente micidiale sisma) prima che cambi qualcosa, prima che avvenga davvero una decisione sociale significativa?
P.S. Questi sono i miei pensieri legati al terremoto di oggi ma se volete leggere qualcosa di veramente significativo, vi rimando a un vecchio articolo di Toni Capuozzo, un racconto umano che, a leggerlo, sembra di sentirlo con la voce del suo autore. Ed emoziona ancora di più.
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