martedì 18 maggio 2021

Torneremo ancora

Il 17 luglio del 2014 io e Stefano abbiamo traslocato nel nostro nuovo appartamento. Avevo perso un figlio da poco e da lì a breve avrei scoperto che un figlio stava per arrivare, ma ancora non potevo saperlo. Faceva un caldo pazzesco, verso le sei i traslocatori se ne erano andati lasciandoci soli con gli scatoloni, un gran casino sparso per la casa nuova ma liberi di farci una doccia e filare al concerto di Battiato all’Ippodromo. Dopo due ore eravamo sotto al palco a cantare qualcosa tipo “il senso del possesso che fu prealessandrino”. Un tipo disperato ma pacificato a fianco a me sentenziava: “questo concerto equivale a due sedute di terapia” e aveva ragione.

Quante cose sei stato e continui a essere, Franco, un Maestro davvero. Oggi è stata un’esplosione di ricordi, di dolcissime madeleine: la Summer Dance consumata dall’autoradio, lo sfottò a quello con la zeppola “gli artiFti pop, i manifeFti ai muri”, gli aneddoti raccontati cento volte, te la ricordi quella di “vagavo nei campi del tennis”? E quella del clavicembalo? E poi l’amico fissato, i dieci stratagemmi, il Tibet, i tappeti sul palco, il Conservatorio... qua non ci stanno tutti. Io non lo so se ci credo davvero che “vivere non è difficile, potendo poi rinascere”, ma che cambierei molte cose, un po’ di leggerezza e di stupidità, sì. Ci lasci tanto, ma ci lasci più soli. Mancherai Franco.




venerdì 19 maggio 2017

Fare buchi nell'acqua è una cosa meravigliosa

La notte del 12 dicembre 1989 c'è una Luna piena grande così e nel mezzo dell'Oceano Atlantico, a quattro giorni di navigazione dalla costa, c'è una nave. A bordo una squadra di ricercatori, impegnata in una lunga, costosa, faticosa ricerca, che finalmente fa la sua scoperta. Trovare una roccia di basalto vecchia di 171 milioni di anni, la più antica mai trovata nella crosta oceanica. Su quella nave c'è anche Elisabetta Erba - geologa, una vita consacrata alla ricerca, Presidente della Società Geologica Italiana - che ora, a quasi trent'anni da quella notte, è riuscita ad avere solo per sé un pezzetto di quel basalto, ne ha fatto un ciondolo e se lo tiene stretto tra le mani. La mano in fotografia è la sua, e quello lì è l'aspetto di una roccia che ha aspettato 171 milioni di anni che qualcuno abbastanza tenace, in gamba e folle andasse a prenderselo. E questo è il commento che Elisabetta Erba, in una bella mattina di sole che illumina la Sala del Cenacolo del Museo della Scienza di Milano, ha da dire su tutta questa storia di ricerca e di passione:

"Fare buchi nell'acqua è una cosa meravigliosa".




martedì 28 giugno 2016

La Poesia, all'improvviso

Esterno - Sera. Impigliata nella routine da ufficio, mi libero al solito orario (18 e zero zero) e devio il canonico percorso verso casa. Faccio tappa Ral8022, l'idea è bere qualcosa con un paio di amici che non vedo da un po', scambiarci quattro chiacchiere, salutarci prima delle vacanze. Sappiamo benissimo che ci rivedremo a settembre, forse anche a ottobre e che, nel mentre, lo sguardo verso i rispettivi orizzonti non sarà poi tanto diverso da qui ad allora.

E invece. E invece succede che le chiacchiere si interrompono. Succede che insieme alla carta dei cocktail ci consegnano un altro menu. Un menu di poesie. Un cameriere che non è un cameriere si avvicina a un tavolo, la ragazza carina con gli occhi verdi e una civetta tatuata sulla scapola che lo ha chiamato gli ordina Stile, di Bukowski, e il cameriere che non è un cameriere attacca: "Lo stile è una risposta a tutto / un nuovo modo di affrontare un giorno noioso o pericoloso / fare una cosa
noiosa con stile è meglio che fare una cosa pericolosa senza stile". No, dico, stai parlando con me? Lo stai dicendo a me?

Il cameriere che non è un cameriere non si limita a recitare i versi, li interpreta, il cameriere è un attore e come lui, tra i tavoli, in mezzo alla gente che aspetta uno spritz, il fischio di inizio di una partita, un treno che passa o la notte che scorre, ci sono almeno altri otto suoi colleghi, tra ragazzi e ragazze. La mia amica ne chiama uno, gli chiede Itaca di Kavafis: "... In Ciclopi e Lestrigoni, no certo/ né nell'irato Nettuno incapperai/se non li porti dentro".

E poi tocca a me. E mi serve sentire Pavese, Ti ho sempre e soltanto veduta, e non trovo più pace. E mi serve la leggerezza di Benni, Prima o poi l'amore arriva. E mi viene chiesto se gradisco un po' di Dante Aligheri: Paolo e Francesca? Un po' di Purgatorio? Forse un Ulisse? Un Ulisse, per carità. E questo ragazzo che ho davanti, che non è un cameriere, che è un attore, un signor attore, si trasfigura  e mi racconta:

"... né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore".

Non c'era cocktail, né chiacchiera che potevano farmi sentire così. Sentire cosa? Sentire un "soffio" di vita. Se volete chiamiatela pure "botta di vita". Siamo abituati ad associare il concetto a esperienze "più forti" e invece la botta in questione arriva dalla poesia. Dici "poesia" e tanta gente si spaventa. Perché? Perché la poesia mette il dito proprio lì, dove fa più male, dove fa più bene, dove fa ridere, dove fa piangere, di dolore, di gioia, di commozione, di rabbia. Mette il dito nella piaga dell'Umanità.

Interno - Notte. Sono rientrata a casa, ho un sorriso così, ho camminato per un bel pezzo, il passo svelto ma l'occhio pronto a notare la bellezza che incontravo per strada. Mi sono tenuta stretta tutta l'emozione del Menu della Poesia. Sono qui nella mia camera da letto più viva di quando sono uscita stamattina. Più divertita. E' questo che succede quando incontri la poesia all'improvviso, il teatro all'improvviso.

Il Menu della Poesia non è un mio delirio mentale. E' il progetto, romantico e concreto, di un gruppo di attori professionisti che, quando non è impegnato sui palchi più prestigiosi di mezza Italia, porta la poesia alla gente durante un aperitivo al Ral8022, per le strade delle città e, fino al 15 luglio, al Bistrolinda del Teatro Elfo Puccini con cene a tema. Fanno sapere che il 19 e 20 novembre saranno presente a BookCity, a Milano. Fanno anche servizio a domicilio, nel caso,

Se cercate una botta di vita, se cercate di fare pace con la poesia o state danzando col vostro demone, non vi resta che scegliere la portata giusta dal Menu.




giovedì 3 aprile 2014

Il rebus Nymphomaniac (Vol.1)

 
Una... gaudente Charlotte Gainsbourg
nella locandina del film
All'invito all'anteprima di Nymphomaniac ci ho pensato due volte prima di dire sì. Ho pensato subito al porno, e a me il porno fa impressione (#sapevatelo) e a scene pesanti da mandar giù (scusate l'umorismo), poi ho detto sì e ho pensato: "Vediamo che succede". Nel buio della sala, un buio che dura parecchi secondi nell'incipit del film, succede che temo l'arrivo delle scene di sesso neanche stessi guardando Lo squalo di Spielberg (Help me, Mr. Freud!)... Poi ho lasciato perdere.

Non nel senso che me la sono filata via, nel senso che, intuendo che il porno che temevo di dover guardare in realtà non esisteva, ho lasciato da parte la prospettiva sessuale (lo so che sembra un'ardua impresa, dato il tema di Nymphomaniac) per cercarne altre. Penso che il primo volume non possa essere interpretabile soltanto alla luce di quel che sarà il suo seguito. Il Volume 2 riserverà sicuramente scene più forti e questo sembra chiaro fin dal suo trailer posto ai titoli di coda del Vol.1: pare proprio che tornerò a temere l'arrivo di falli, vagine e orifizi vari manco fossero IT Il Pagliaccio. A 'sto punto però il Vol.2 di Nymphomaniac s'ha da vedè: per chiudere il cerchio della storia di Joe la ninfomane e per capire come va a finire o dove va a parare il discorso che Lars von Trier tesse davanti ai nostri occhi di spettatori, tra le righe visive che narrano appunto le gesta erotiche della ninfomane di cui sopra.

La storia è nota: l’anziano Seligman (Stellan Skarsgard) trova il corpo di Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg nel presente del film e dall’esordiente Stacy Martin nei flashback) disteso a terra, in un vicolo buio. La donna è malconcia, le viene offerta ospitalità e nelle stanze dell’uomo spiega la sua storia di “peccatrice”, come si definisce lei stessa. Joe dispiega la sua vita di ninfomane dall’infanzia fino all’ingresso nell’età adulta (in questa prima parte). Curiosità e scoperte infantili sul sesso, scabrosi giochi adolescenziali, lussuriosi vizi quotidiani scorrono sullo schermo interrotti  dagli interventi di Seligman, che assume quasi una funzione paratestuale fornendo spunti metaforici (la matematica, la pesca, la musica polifonica) ai capitoli che scandiscono il racconto, non senza scadere nel didascalico e con effetti comici notevoli. Si ride, in sala, parecchio: all'inizio ho pensato che fosse una conseguenza involontaria del regista. "Che scivolone", mi sono detta, lì per lì. Ma, credetemi, ce ne sono parecchi di momenti del genere, forse troppi: vuoi vedere che di involontario qui non c'è proprio niente?

Il cast di Nymphomaniac in vesti... insolite.
Anche quelle scene che sulla carta dovrebbero/potrebbero essere drammatiche, sono depotenziate, basti pensare a tutto il capitolo con protagonista Uma Thurman: teatralissimo, comicissimo. In ogni caso, quando sarete arrivati a quel punto, il dubbio vi sarà venuto da un pezzo: che cosa ci racconta davvero il film? E la storia che Joe racconta a Seligman è “davvero” la sua storia o è soltanto quella che il vecchio vuol sentirsi raccontare? È possibile che sia tutta o in parte una metafora del "dialogo" tra regista (Joe) e pubblico Seligman), tra artista (Joe) e critico (Seligman), tra un uomo (von Trier / Joe) e se stesso (von Trier / Seligman)? Ci sono un mucchio di domande in sospeso che (mi) chiedono da un lato di rivedere il film, dall'altro di vedere il sequel. Con un'avvertenza: voler trovare un significato ultimo della storia narrata dal Volume 1 tutto nel Volume 2 rischia di trasformarsi in impresa frustrante e inutile. Forse, e dico forse, conviene concentrarsi sulla riflessione metacinematografica e metanarrativa sottesa al film, come un rebus difficile tutto da interpretare.

lunedì 3 marzo 2014

La grande bellezza, secondo me. Aspettando gli Oscar...

L'indolente Servillo in una scena de "La Grande Bellezza"
Sono andata a vedere La Grande Bellezza non molto tempo fa. Dopo i Golden Globes e in vista degli Oscar se n'è fatto un gran parlare e volevo entrare anche io nella discussione. Sono andata al cinema non senza scetticismi: a volte ci facciamo condizionare talmente dai media da formulare un giudizio su qualcosa che nemmeno conosciamo. E questo era il caso mio e de La Grande Bellezza. A sentirne parlare (in tv soprattutto) pensavo di andare a vedere un film che raccontava dei piaceri dell'attuale dolce vita romana, coatta, ignorante, un po' squallida. Non avevo capito niente, del resto come potevo, se non avevo visto La Grande Bellezza?

Tralasciando numerosi dettagli (la sala in cui l'ho visto, le persone che mi hanno accompagnato e con cui ho discusso, il fatto che, scena dopo scena, si sgretolassero i pregiudizi), direi che Sorrentino mi ha conquistata. Qualcuno si indignerà a riguardo, ma mi sono trovata a pensare che - alleluja - nel cinema italiano qualcuno avesse avuto la sfacciataggine di seguire i passi di Fellini anziché quelli della Commedia-all'-Italiana, della quale non passa giorno senza che qualche regista non se ne autoproclami come degno erede. Di Fellini, ne La Grande Bellezza, ho ritrovato un po' di Otto 1/2 (opera unica e irripetibile), la leggerezza, la nostalgia, ho captato alcuni richiami, ecco. E mi dispiace se, parlando della notte degli Oscar in corso, la tv (tanto per cambiare) abbia sottolineato che l'Italia manca l'Academy Award per il miglior film straniero da 15 anni, riferendosi a La vita è bella, anziché ricordare che 50 anni fa Otto 1/2 si aggiudicava proprio quel premio. L'accostamento 1964 - 2014 mi pareva più azzeccato, tutto qui (e magari di buon auspicio, e adesso chi vuole faccia pure gli scongiuri, per Sorrentino).

Romana flânerie
Detto ciò, La Grande Bellezza mi è sembrata molto più disincantata e disillusa del capolavoro di Fellini. Disilluso è il suo protagonista: Jep è un flâneur, passeggia per Roma, la contempla dai terrazzi, per le strade, è un flâneur rispetto alla città e ai suoi abitanti. Intorno a lui si dibatte una varia e vasta umanità: sceneggiatori in crisi, artisti o sedicenti tali, intellettuali incazzose "dure e pure", omuncoli, delinquenti col completo sartoriale che tirano le fila del Paese... ce n'è di ogni. E la città, con la sua storia, le sue rovine, i suoi monumenti, sta lì come a dire: che vi dibattete a fare poi... tutto questo passerà, credete di essere i primi e gli unici a vivere in questo mondo, ma passerete anche voi, e tutto è stato detto, tutto è stato fatto, tutto è stato scritto. Rilassatevi, godetevela. E un po' è questo lo sguardo di Jep: indolente, benché desideroso di provare ancora una volta il piacere dello stupore, quello che ti assale quando vedi/provi/fai qualcosa di eccezionale per la prima volta. Ma la nostra vita quante prime volte ci può dare?

La locandina tedesca del film
Oltre le allegre baracconate, le messe in scena, le parole che riempiono le bocche, i bla-bla-bla futili e tronfi, tutto scorre come l'acqua delle fontane di Roma, come il fiume, come i ricordi delle stagioni passate, come l'emozione di ogni nostra prima volta.

Se dovessi sintetizzare quello che La Grande Bellezza è stata per me, userei queste parole: niente ai mortali dura, né la notte stellata, né la tragedia, non resta forse che l'esperienza estetica. E allora lasciamoci trasportare dalla musica e dalle immagini dei titoli di coda, e guardiamo ancora una volta Roma, con gli occhi di Jep, lasciandoci portare con lui - come lui - dalle acque del Tevere, nell'ora del tramonto, finché la luce ce lo consentirà.